Il tema del riscaldamento globale sta entrando sempre più nella nostra vita quotidiana, con tutti i problemi che ne conseguono, a partire dai danni immediati che gli eventi atmosferici estremi causano. A tutto questo sembra aggiungersi anche un depauperamento del contenuto nutrizionale degli alimenti, una frontiera di ricerca recente ma in via di consolidamento. Come abbiamo visto, del resto, le conseguenze sul cibo del cambiamento climatico sono molteplici, ed esigono risposte dal sistema produttivo come dai decisori politici. Ma il global warming impoverisce davvero le derrate alimentari? E in che misura? Con questo approfondimento cercheremo di saperne di più.
Cibo e cambiamenti climatici: il rapporto IPCC
Il nesso tra riscaldamento globale e sicurezza alimentare negli ultimi anni è diventato un tema di studio di grande rilievo, soprattutto per quanto riguarda il declino produttivo in termini di quantità e rese, come abbiamo visto nel nostro recente approfondimento sul calo nella raccolta del pomodoro. A questo aspetto, però, se ne aggiunge un altro che finora non è stato altrettanto considerato, ovvero l’impoverimento nutrizionale che i cambiamenti climatici determinerebbero sui cibi, segnalato nel rapporto SR15 dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), pubblicato nell’ottobre 2018. In sostanza, il potere nutritivo dei frutti e dei vegetali risulterebbe diminuito in diverse aree del mondo, specialmente nelle fasce climatiche più vicine all’Equatore, quindi in molti Paesi poveri e in via di sviluppo.
Nel documento IPCC, si sottolinea il legame stretto fra sviluppo sostenibile, lotta alla povertà e riduzione delle diseguaglianze, ribadendo il rapporto causale tra la qualità dell’ambiente e il livello di sviluppo umano. In questo quadro, i sistemi alimentari hanno un ruolo chiave, e l’agricoltura – come l’allevamento e la pesca – dipende proprio dalla relazione tra cicli naturali e organizzazione umana. Da tutto ciò, chiaramente, discende un’economia che a sua volta consente la soddisfazione delle necessità basilari, e a cascata l’affermazione dello sviluppo e del progresso sociale.
I danni del riscaldamento globale sono chiari da anni
Nel rapporto IPCC viene illustrato il parallelismo tra cambiamenti climatici, equilibri ecologici e sistemi alimentari, una situazione dalle ripercussioni globali e in parte già quantificabili. Pur partendo da un quadro assai negativo – dal 2016, anno successivo alla Cop21 di Parigi, quando all’IPCC viene commissionato il rapporto – nel 2017 la FAO ha segnalato un peggioramento delle condizioni per la sicurezza alimentare in varie zone del mondo, legate ai fenomeni locali dovuti al riscaldamento globale. Nello specifico, oltre ai Paesi più a rischio, come quelli a ridosso delle fasce interessate dalla desertificazione, anche quelli mediterranei soffrono e soffriranno il global warming, anche per la presenza di coltivazioni legate a condizioni climatiche particolari, quali la vite, il pomodoro e l’ulivo, come abbiamo visto nel nostro approfondimento sulla crisi della produzioni di olio. Da queste colture, notoriamente, dipendono intere economie, dirette e indirette, per le quali l’Italia si distingue, con un prestigio riconosciuto nel mondo.
Anidride carbonica e ozono peggiorano i raccolti
Il documento IPCC stima conseguenze variabili entro il 2050, a seconda dell’entità dell’aumento di temperatura, con un minimo di 1,5° C e un massimo superiore a 2°, come abbiamo riportato descrivendo il calo nella raccolta del pomodoro. Anche nell’ipotesi meno grave, per centinaia di milioni di persone peggioreranno le condizioni di povertà e insicurezza alimentare. Su scala globale, parlando di cibo, i cambiamenti climatici determinano oltre il 60% dei casi di calo del rendimento di grano, mais, riso e soia, con differenze dovute al tipo di coltura. Alcune ricerche hanno rilevato che l’aumento delle concentrazioni di anidride carbonica nell’atmosfera può aumentare o diminuire le rese colturali, ma i raccolti effettivi risultano globalmente ridotti e peggiorati.
A questo dato, si accompagna un’aumentata accumulazione di ferro e zinco nelle piante, anziché nei semi e nei frutti, minerali che quindi diventano meno disponibili per l’alimentazione umana e animale.
Inoltre, l’IPCC registra un consenso crescente del mondo scientifico anche sugli effetti diretti dell’aumento dell’ozono troposferico (quello più a contatto con la superficie terrestre) sulle rese di grano, riso, mais e soia, che su scala globale causerebbe una diminuzione dei raccolti tra il 3% e il 16%. In alcune zone del mondo, come il Sud-Est asiatico, i problemi dei sistemi alimentari si aggiungono a quelli dovuti direttamente ai cambiamenti climatici. Nel bacino del Mekong, ad esempio, a un aumento della temperatura superiore alla media si sommano inondazioni e innalzamento del livello del mare, con una salinizzazione e una perdita di fertilità delle terre inondate. Non a caso, nei prossimi dieci anni in queste zone si stima una diminuzione del 15% della produzione di riso, cereale alla base dell’alimentazione locale, nonché merce d’esportazione fondamentale. Il danno economico e sociale, pertanto, sarebbe molto serio.
Cibo e cambiamenti climatici: gli studi recenti
In relazioni ai contenuti del rapporto IPCC, possiamo citare tre studi che dimostrano correlazioni tra riscaldamento globale e agricoltura. Secondo una ricerca del 2017, pubblicata su Environmental Health Perspectives, a elevate concentrazioni di anidride carbonica, il contenuto proteico di riso, grano, orzo e patate calerebbe rispettivamente del 7,6%, 7,8%, 14,1% e 6,4%. Le diete a base di vegetale sarebbero particolarmente colpite da questa situazione, di conseguenza i Paesi in via di sviluppo, dove questo tipo di alimentazione è la regola, vedrebbero milioni di persone perdere più del 5% di proteine, in un quadro di carenza già evidente. Entro il 2050, se il trend attuale nell’aumento dell’inquinamento e i livelli di disuguaglianza fossero mantenuti, l’alimentazione di più di 150 milioni di persone potrebbe precipitare verso la denutrizione.
Ancor più consistente, secondo uno studio coevo pubblicato su GeoHealth, è il calo nel contenuto di ferro nei vegetali, sempre dovuto a eccessi di CO₂. In questo caso, la popolazione direttamente interessata corrisponderebbe addirittura a 1,4 miliardi di persone, pari al 57% di tutti i bambini di età inferiore a 5 anni e al 60% delle donne in età fertile in tutto il mondo. Le regioni a subire il danno maggiore sarebbero il Sud-Est asiatico e l’Africa settentrionale e orientale, mentre il Sud America e l’Africa occidentale accuserebbero un rischio moderato.
Una terza ricerca, realizzata dall’Università di Tokyo nel 2018, si è concentrata sui contenuti nutrizionali del riso, alla base della dieta in Oriente, confermando che percentuali eccessive di anidride carbonica (da 568 a 590 parti per milione) intaccano le proprietà nutrizionali, in particolare il contenuto di ferro, zinco, proteine e vitamine B1, B2, B5 e B9. Non tutte le varietà di riso hanno risposto allo stesso modo, quindi i futuri progetti di ricerca potrebbero esaminare la possibilità di individuare piante capaci di mantenere i nutrienti, nonostante il cambiamento in atmosfera. Le ricerche sui cereali, come abbiamo visto nei nostri approfondimenti su orzo, sorgo e fonio, stanno già sperimentando coltivazioni adatte a un habitat ostile a molte delle varietà attualmente più diffuse.
Allevamento e pesca colpiti dal riscaldamento globale
L’impatto del global warming sugli allevamenti non è ancora abbastanza studiato per ricavare indicazioni precise, ma è evidente che un depauperamento delle colture da foraggio non potrà che intaccare la qualità dei mangimi, peggiorando l’alimentazione degli animali. Anche in Europa le variazione delle precipitazioni colpiranno la qualità del foraggio nei pascoli, e nel mondo ancor più negativa sarà la riduzione della disponibilità di acqua per il bestiame.
Un discorso analogo vale per la pesca e l’acquacoltura, considerando che i cambiamenti climatici nei mari si stanno ripercuotendo sulle patologie e sulla riproduzione dei pesci, ma anche sulle migrazioni, sul rischio di estinzione e sulla diffusione di specie invasive, come abbiamo visto nel nostro approfondimento sull’anguilla. Nello specifico, sono la diminuzione dei livelli di ossigeno e l’aumento dell’acidità – legati al riscaldamento – a favorire questi fenomeni.
A livello globale, un aumento di 1,5° centigradi causerà una diminuzione delle catture di pesci pari a 1,5 milioni di tonnellate, mentre il dato raddoppierà con un incremento di 2 gradi, che comporterebbe anche una quasi totale sparizione delle barriere coralline, note per essere preziosi santuari di biodiversità marina.
Cibo, cambiamenti climatici e sicurezza alimentare: gli effetti indiretti
Agli aspetti fin qui riportati – che evidenziano un impatto diretto del riscaldamento globale – ne vanno aggiunti altri non meno rilevanti, quali l’accesso al cibo e l’effettivo valore nutrizionale di ciò che finisce sulle tavole. Gli effetti indiretti, infine, hanno a che fare con le conseguenze socioeconomiche, e si generano dall’interazione tra i fenomeni citati. Fra questi, si possono annoverare:
- le speculazioni finanziarie e l’andamento dei prezzi della terra, legati ai valori delle materie prime;
- i cambiamenti politici e organizzativi delle economie e dei sistemi alimentari, che possono determinare riequilibri dei poteri;
- le migrazioni dovute alle carestie, fenomeno di grande impatto globale con enormi ripercussioni sociali e politiche, che potrebbe essere identificato come prodotto finale di questa catena complessa.
Questi fattori incidono sulle condizioni di accesso al cibo e si influenzano a vicenda, un motivo in più per considerarli e analizzarli attentamente.
Cibo e cambiamenti climatici: cosa possiamo perdere?
Oltre al depauperamento attestato dalle ricerche, secondo le previsioni i cambiamenti climatici entro il 2050 potrebbero spingere verso l’estinzione molte produzioni alimentari oggi assai comuni. Tra gli alimenti considerati a rischio si cita spesso il cioccolato, che potrebbe diventare molto più scarso e caro nei prossimi decenni. Secondo i dati dell’IPCC, proprio alcuni dei principali Paesi produttori di cacao – Indonesia, Ghana e Costa d’Avorio – non offriranno più il clima caldo-umido richiesto da questa pianta.
Anche per il caffè potrebbero valere considerazioni simili, perché l’aumento delle temperature e le piogge irregolari potrebbero compromettere le produzioni africane, sudamericane e asiatiche, flagellate da malattie e parassiti. La coltivazione del tè in India, invece, sarebbe pregiudicata dalle eccessive precipitazioni monsoniche, che peggiorerebbero la qualità del raccolto.
L’aumento delle temperature sarebbe assai dannoso per lo sciroppo d’acero, perché per gli aceri si accorcerebbe il periodo di produzione della linfa. Anche per il miele potrebbe arrivare tempi sempre più cupi, a causa della germogliazione anticipata delle piante e all’aggravarsi della crisi delle api.
A subire danni sarebbero gli alberi da frutto – peschi, albicocchi, ciliegi e non solo – aggrediti dagli eventi meteorologici irregolari, che perdipiù non garantiscono il raffreddamento di cui le piante necessitano in inverno. La produzione di pasta, legumi e arachidi, infine, potrebbe ridursi a causa della diminuzione delle rese agricole.
Sapevate che sul cibo i cambiamenti climatici hanno effetti negativi sia in termini di quantità prodotte che di qualità nutrizionale?
Fonti:
Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC)
Valori
Environmental Health Perspectives
GeoHealth
EurekAlert