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I ristoranti aziendali come autentici luoghi di comunità: intervista al sociologo Flaviano Zandonai

Alessia Rossi
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    È sotto gli occhi di tutti: il mondo del lavoro si è trasformato profondamente negli ultimi due anni. Ha richiesto più flessibilità, innovazione e digitalizzazione, da ogni punto di vista, e ha portato alla creazione di forme lavorative ibride e per certi versi mai sperimentate prima nel nostro Paese. Ma in questo contesto mutevole e fluido come si inserisce la tradizionale pausa pranzo? Il ricorso all’home working da parte di moltissime aziende ha infatti modificato questo momento e le abitudini degli italiani, soprattutto per quanto riguarda il pasto in ufficio. Da un lato con la chiusura di molti ristoranti aziendali, dall’altra portando a una veloce riorganizzazione e a un’innovazione dell’offerta, con nuove soluzioni come i locker, o nuove modalità di somministrazione e fruizione dei pasti, per continuare a garantire, con la massima attenzione e responsabilità, la continuità dei servizi di ristorazione. Possiamo parlare di “nuovi stili di vita”? E soprattutto, cosa possono fare oggi le imprese per cercare di supportare i propri dipendenti?

    L’abbiamo chiesto al sociologo Flaviano Zandonai, che ci ha aiutato ad analizzare i cambiamenti in atto e come le aziende possano mettersi in ascolto e offrire servizi di welfare aziendale che realmente incidano sul benessere delle persone.

    La pandemia cambia il rapporto tra imprese e lavoratori

    Questi due anni hanno visto attuarsi grandi trasformazioni in tutti gli ambiti, con importanti ricadute anche sulla cultura aziendale. È possibile, dunque, parlare di nuovi stili di vita? “Non solo è possibile”, inizia a spiegare Zandonai, “ma possiamo parlare anche di nuove organizzazioni per nuovi stili di vita. Credo che la novità principale che è emersa è la tendenza ad andare verso la costruzione di un nuovo rapporto tra impresa e lavoratore, improntato verso una maggiore collaborazione, trasparenza, organizzazione e creatività delle persone. Si tratta però di cambiamenti che non sono solo figli della pandemia, ma che da essa sono stati accelerati”.

    chiusura ristorazione collettiva

    aerogondo2/shutterstock.com

    Tuttavia, non è stato così per tutti. “Rispetto all’estero, infatti, i cambiamenti che la pandemia ha imposto in Italia sono stati percepiti più come un problema da risolvere che come opportunità da cogliere. Ad esempio, per le organizzazioni che già da tempo avevano iniziato a sperimentare alcune forme di coinvolgimento dei lavoratori, questi due anni sono stati un’occasione. Invece, è chiaro che per quelle imprese basate su modelli rigidi e di controllo dei propri dipendenti, in cui si dà poco spazio all’apporto imprenditivo delle persone, la pandemia e il lavoro da casa hanno rappresentato una perdita di quel controllo”.

    Differenza tra smart e home working

    L’emergenza sanitaria ha creato le condizioni forzate per una sorta di “sperimentazione di massa” di un nuovo modo di lavorare, che ha visto nel cosiddetto “smart working” la sua massima espressione. Ma è davvero corretto parlare di lavoro agile e “intelligente”?

    “A mio parere, il fatto che se ne parli a livello di opinione pubblica, anche se in termini non proprio precisi da un punto di vista definitorio, è comunque positivo. Perché è importante che queste questioni escano dalla cerchia degli addetti ai lavori e diventino di dominio pubblico. Dopodiché, è bene comunque specificare e capire quali sono le differenze” spiega Zandonai. Infatti, “lo smart working non è necessariamente il lavoro da casa: si può fare smart working anche frequentando altri luoghi oltre a quelli aziendali e domestici. Ad esempio, penso al fiorire in ambito urbano di spazi di coworking e di incubazione, dove spesso si recano anche i dipendenti di aziende per certi periodi, entrando  in contatto con altre realtà di imprese sociali e start up. Lo smart working, quindi, non è solo lavorare in modo diverso, ma pensare il proprio lavoro in modo diverso”.

    smart working campagna

    Alex Brylov/shutterstock.com

    Al contrario, come spiega Zandonai, l’home working – come sarebbe più corretto definire ciò che è accaduto in questi due anni nel nostro Paese – in alcuni casi non può essere considerato “smart” perché non è strutturato per esserlo. Spesso i lavoratori non avevano a disposizione le infrastrutture tecnologiche o gli spazi lavorativi adeguati, e la gestione dell’organizzazione degli orari e delle modalità lavoro vere e proprie sono state difficoltose. “Smart e home working spesso non coincidono, ma per il futuro occorre fare in modo che ritornino a coincidere. In questo senso può migliorare il welfare aziendale? Io direi di più, se correttamente definita e agita, questa modalità lavorativa può migliorare sia il benessere personale dei dipendenti che l’azienda in generale, avendo effetti positivi sulle performance aziendali”.

    Il problema, secondo il sociologo, è che pre-pandemia non si è mai riflettuto su questa possibilità lavorativa. “Ci siamo finiti dentro senza aver mai pensato a una strategia di questo tipo. È molto difficile rendere smart una cosa che di per sé non lo è, a fronte di un evento di rottura come quello della pandemia. Per il futuro potrebbe essere interessante investire su questo nella misura in cui le organizzazioni – anche quelle che rappresentano il lavoratori – capiscano che qualcosa è cambiato e che questa modalità lavorativa può essere messa a regime, diventando una nuova normalità”.

    Tra individualità e consciousness: come ricostruire le relazioni sociali?

    Questo contesto ha avuto importanti conseguenze sulla pausa pranzo. Tra il 2020 e il 2021 l’home working ha evidenziato alcune problematiche, ad esempio la mancanza di separazione tra ambiente domestico e lavorativo e, soprattutto, la perdita di alcuni fondamentali momenti di socialità con i colleghi, come il momento del pasto condiviso all’interno dei ristoranti aziendali. Cosa ha comportato questo?

    Girts Ragelis/shutterstock.com

    “La tendenza è ancora fluida”, racconta Zandonai. “Se si guardano i dati sullo stato psicologico delle persone si notano trend differenti. Certamente c’è una sorta di ritorno all’individualità, che può diventare anche individualismo, e quindi chiusura e difficoltà a riprendere le relazioni. Infatti, sicuramente un lascito della pandemia è questo deficit relazionale, ossia questa incapacità di ricostruire delle relazioni sociali che siano realmente significative. Dall’altra parte, però, è bene specificare che questa individualità – intesa come ripiegamento su se stessi – in alcune indagini è vista come una sorta di elemento di consciousness, ossia avere una maggiore consapevolezza di sé e delle proprie priorità. Ci troviamo in una fase in cui c’è sì una certa difficoltà a rimettere in moto i circuiti classici della socialità, ma non è detto che questa difficoltà sia da valutare solo in maniera negativa: la pandemia ha rappresentato anche un’occasione per guardare alla propria vita dandole nuovo significato. Siamo in una fase interessante, che non è solo una desertificazione delle relazioni sociali”.

    “Il ristorante aziendale deve diventare un luogo di comunità”

    Come ha evidenziato in una recente intervista Marcello Leonardi, National Key Account Director della Ristorazione Aziendale CIRFOOD, la pausa pranzo in ufficio è un un servizio fondamentale, che garantisce benefici in termini nutrizionali, di tempo e di spazi per la socializzazione. È della stessa idea Zandonai, che considera  questa modalità un pilastro molto consolidato della qualità dell’offerta.

    “In questi anni sono stati fatti molti sforzi dal punto di vista dei ristoranti aziendali di lavorare sulla qualità del prodotto e sulla varietà a livello di proposta cibo, ma non solo. Si è puntato molto anche sulla qualità delle relazioni che si innesca all’interno degli spazi dedicati, e in quest’ottica il modo in cui sono costruiti, pensati, arredati e gestiti fa la differenza. In questo senso c’è un termine che vale la pena sottolineare: autenticità. Le imprese di ristorazione aziendale hanno lavorato in questi anni sull’autenticità dei prodotti, il tipico, il km 0, la certificazione, ma c’è un tema anche dell’autenticità dei luoghi di incontro dove si consuma il cibo”.

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    Per il futuro, il ristorante aziendale deve diventare ancora di più un ambiente in cui è possibile relazionarsi, stare insieme, condividere non solo il pranzo in sé, ma anche informazioni, iniziative, attività. “È interessante evidenziare il loro ruolo non solo per l’offerta culinaria, ma anche per la possibilità che hanno di diventare luoghi d’incontro e di comunità. Da una parte, quindi, c’è senz’altro l’esigenza maggiore di avere buon cibo a costi accessibili e contenuti, dall’altra però di entrare in uno spazio nel quale è possibile creare interazioni significative, abilitando una maggiore relazionalità tra le persone: questo sarà un elemento sempre più strutturale dell’offerta. In questo senso si incrementa anche la dimensione di welfare che questo servizio può offrire, perché non risponde solo a un bisogno primario”.

    Il ristorante aziendale come una leva importante di welfare

    Oggi il welfare aziendale ha acquisito sempre più importanza nella gestione del work life balance. E alla luce del cambiamento in atto, le aziende dovrebbero puntare anche su questi aspetti, per supportare i propri dipendenti. “Il welfare aziendale non dovrebbe essere rappresentato solo da premi benefit e supporti monetari, ma diventare sempre più una modalità con cui le imprese possono mettere in atto servizi che influenzino direttamente la qualità della vita delle persone, anche attraverso ciò che mangiano, dove e con chi. Solo così il welfare aziendale può incidere in maniera più decisa sul benessere delle persone. Per fare questo c’è bisogno di ampliare l’offerta, consentendo di sviluppare una maggiore relazionalità interna”.

    In questo senso, la dimensione del cibo – e di conseguenza il momento della pausa pranzo – è una leva importantissima. “Nei coworking è un elemento portante nella costruzione della community di questi luoghi, all’interno dei quali si condividono attività, progetti, iniziative, in modo molto informale. È importante quindi strutturare meglio tutti gli spazi di condivisione all’interno delle aziende, come le mense, con la consapevolezza che lì possono avvenire scambi significativi”.

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    Verso una maggiore sinergia tra welfare aziendale e territoriale 

    Per rispondere alle sfide della ristorazione e del welfare del futuro, in ottica innovativa e sostenibile, le aziende dovrebbero sempre di più puntare su una maggiore integrazione tra welfare aziendale e welfare territoriale. “I due termini per un certo periodo di tempo sono stati separati. Il welfare aziendale è un sistema di protezione sociale costruito da un’azienda in base ad accordi fatti direttamente con i propri lavoratori. Si tratta quindi di un sistema chiuso, che riguarda solo i rapporti tra un’azienda e i suoi dipendenti. Il welfare territoriale invece riguarda chi abita un determinato territorio, permettendo ai cittadini residenti di accedere a una serie di servizi”.

    Negli ultimi tempi welfare aziendale e territoriale hanno iniziato a interagire e a convergere sempre di più. “Le aziende hanno capito che un welfare aziendale riservato solo a i propri dipendenti non basta: occorre che almeno in parte questi servizi siano ampliati anche al proprio territorio”. E questo potrebbe valere anche per i ristoranti aziendali, che potrebbero essere aperti non solo ai dipendenti, e diventare anche luoghi in cui portare avanti iniziative in cui il cibo diventa l’elemento portante per creare relazioni sociali. “Per il futuro, quindi, sarà sempre più fondamentale aprirsi al territorio, ad esempio puntando ancora di più sul km zero, in modo che quel determinato ristorante aziendale aiuti a tenere in piedi la filiera agroalimentare locale. La strategia sarà quindi quella di creare benefici ad ampio raggio, che vanno oltre la fruizione stessa della mensa aziendale”.

    È nata vicino a Bologna, ma dopo l'università si è trasferita a Torino per due anni, dove ha frequentato la Scuola Holden. Adesso è tornata a casa e lavora come ghost e web writer. Non ha molta pazienza in cucina, a parte per i dolci, che adora preparare insieme alla madre: ciambelle, plumcake e torte della nonna non hanno segreti per lei. Sta imparando a tirare la sfoglia come una vera azdora (o almeno, ci prova).

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