La Via Emilia e i suoi tesori enogastronomici

Roberto Caravaggi
3

     

     

    La SS9, meglio nota come Via Emilia, è l’arteria stradale che attraversa il cuore di una terra straordinariamente generosa come l’Emilia-Romagna. Percorrerla offre spunti per conoscere e toccare con mano ciò che ogni provincia sa regalare, sia come bellezze paesaggistiche, sia come sapori. La proposta emiliano-romagnola, del resto, è tale da aver portato alla proclamazione di Parma quale Città Creativa Unesco per la gastronomia. Ma sono tanti i prodotti che vantano riconoscimenti e marchi di tutela, come DOP e IGP, e altrettante le specialità culinarie, che ben raccontano la ricchezza e la varietà di questa regione. Partiamo allora lungo questo itinerario enogastronomico lungo la via Emilia per scoprire le eccellenze del territorio.

    Itinerario enogastronomico lungo la via Emilia, tra cultura e sapori

    Negli Stati Uniti d’America sono note le leggendarie highway, che corrono per centinaia di chilometri attraverso un territorio a tratti sconfinato. In Italia non possiamo contare su spazi altrettanto vasti, ma abbiamo una concentrazione di attrazioni e risorse, che offrono percorsi parimenti suggestivi. Tra questi c’è sicuramente la Via Emilia, oltre trecento chilometri di strada che collegano la provincia a sud di Milano a Rimini. In questo articolo proviamo a percorrerla idealmente da nord verso sud, focalizzandoci sulle tappe più significative.

    tortelli pasta fresca

    Foto: Roberto Caravaggi

    Dal piacentino, coi suoi dolci colli, dove si snodano i vigneti, e le campagne, terreno fertile di una pregiata varietà di pomodoro, nonché ideale culla di allevamenti da cui derivano grandi salumi, alla bassa parmense, l’estremo meridionale della Pianura Padana ben descritto da Giovannino Guareschi (il “papà” di Peppone e Don Camillo) e altrettanto ben raccontato da eccellenze come il Parmigiano Reggiano e il Culatello di Zibello. Da Reggio Emilia e Modena, tra il rosso rubino di un buon Lambrusco e le acetaie dove riposa una delle varietà d’aceto più pregiate al mondo, fino a Bologna, “La Dotta”, e non soltanto per l’università più antica del mondo. Qui – mi si perdoni il gioco di parole – c’è tanto sapere in fatto di sapori. Non a caso, viene detta anche “La Grassa”. E poi giù, verso la Romagna, dove certe tradizioni sono penetrate sino all’essenza stessa del suo popolo, festoso e sincero come un bicchiere di Sangiovese e una piadina generosamente farcita. Percorrere la Via Emilia è tutto questo. È un viaggio attraverso la cultura e i sapori di una terra e un popolo che ha coscienza di quelli che sono i suoi tesori. E che sa bene come valorizzarli.

    Il piacentino, terra di tortelli e salumi DOP

    Varcato il Po, col suo incedere maestoso, si entra in Emilia Romagna, con la città di Piacenza subito lì a fare da ideale porta d’accesso. Poco più di centomila abitanti per una cittadina capace di sorprendere per la sua vivibilità, che sembra trasmettersi contagiosa a tutto il territorio circostante. Addentrarsi nella provincia permette, infatti, di scovare piccoli borghi caratteristici, tra una vallata e l’altra. La provincia piacentina si caratterizza per un’alternanza tra dolci colli, su cui dominano boschi e vigneti, e vallate pianeggianti, solcate da corsi d’acqua, come il Nure o il Trebbia, dove si aprono campagne a perdita d’occhio. Qui spuntano, di tanto in tanto, cascine e antiche case rurali, che lasciano intuire qualcosa di una tradizione contadina ben radicata. Tradizione che si ritrova fedelmente nei prodotti del territorio e nelle specialità più tipiche.

    tortelli piacentini

    Foto: Roberto Caravaggi

    Pisaréi, anolini e tortelli con la coda

    Partiamo  dai primi piatti, come i pisaréi e fasò, degli gnocchetti realizzati con un impasto a base di farina a pangrattato, che si accompagnano a un sugo di pomodoro, cipolla, cotiche e, appunto, fagioli. Ci sono poi gli anolini, una sorta di ravioli dalla forma di mezzaluna e col bordo generalmente seghettato, ripieni di stracotto di carne (oggi prevalentemente di manzo, in passato però era più spesso di maiale), insaporiti con Grana Padano e noce moscata, e serviti in brodo di cappone. Caposaldo della tradizione piacentina però sono soprattutto i turtéi. Il tortello qui è faccenda seria, al punto che lo troviamo tra le specialità incluse dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali nel registro delle PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali). Addirittura il comune di Vigolzone ha ottenuto il riconoscimento di Denominazione Comunale di Origine (De.Co.) per il tortello con la coda, che viene celebrato ogni anno dalla Festa del Tortello, solitamente in programma intorno alla fine di luglio. Il tortello piacentino è una pasta all’uovo chiusa a forma di caramella, con ripieno di ricotta, spinaci, Grana Padano, uova e sale. Oltre alla versione di magro, in burro e salvia, vengono tradizionalmente conditi con un sugo di funghi porcini (di cui, in stagione, i boschi piacentini sono generosa riserva) bianco o rosso, ovvero con una base di pomodoro.

    Salumi DOP e vitigni per accompagnare

    salumi piacentini

    Foto: Roberto Caravaggi

    Non si può tuttavia passare da Piacenza senza un assaggio delle sue tre stelle DOP in fatto di salumi. Salame Piacentino, Coppa Piacentina e Pancetta Piacentina sono l’espressione di un territorio e di una cultura legata a doppio filo alla carne di maiale. L’allevamento dei maiali è sempre stato una risorsa per la vita contadina, scandendone tempi e abitudini. Risorsa che s’è affinata in un’arte norcina, che trova il coronamento nell’alta qualità di questi prodotti. Immancabile antipasto da accompagnare con quelli che qui vengono chiamati chisolini, meglio noti come gnocco fritto, e con un buon bicchiere di Gutturnio DOC, che le tante aziende agricole disseminate tra i colli piacentini producono copiosamente sia nella versione ferma che frizzante.

    La bassa parmense, culla di sapori

    Dalle vallate piacentine si scende gradualmente verso la bassa parmense, che i suoi abitanti chiamano più confidenzialmente la bassa. Una distesa pianeggiante, solcata da fiumi e ruscelli, tra campi coltivati, dove non di rado capita di scorgere qualche daino. Casolari di campagna punteggiano qua e là un paesaggio verdeggiante in primavera e spesso avvolto da un sottile lenzuolo di nebbia in autunno. È proprio il clima umido della bassa uno dei segreti per la corretta stagionatura degli insaccati, che qui diventano veri e propri protagonisti nobili della tavola. Prosciutto di Parma e Culatello di Zibello DOP, che sono tra i più pregiati salumi a livello internazionale, si producono proprio in questa zona.

    Formaggi dal gusto unico 

    parmigiano reggiano

    Consorzio Parmigiano Reggiano

    La bassa parmense, tuttavia, è anche terra di Parmigiano Reggiano. Altra DOP, ma soprattutto il formaggio più noto e oggetto di tentativi di imitazione in tutto il mondo. Non di rado, all’estero, capita di imbattersi in prodotti truffaldini, che con nomi tipo parmesan cercano di spacciarsi per questa eccellenza tutta nostrana, un fenomeno noto come Italian Sounding. Il disciplinare del Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano, del resto, parla chiaro. Solo quello prodotto nell’area compresa tra le intere province di Parma, Modena e Reggio Emilia, la parte di provincia bolognese alla sinistra del fiume Reno e la parte del mantovano a destra del Po (unico sconfinamento fuori regione) può chiamarsi Parmigiano Reggiano DOP. Un formaggio unico, sia per la consistenza compatta a granulosa della pasta, sia per il suo gusto inconfondibile. Con tante sfumature, che dipendono dal grado di stagionatura e dal latte con cui è prodotto.

    Se il latte è rigorosamente vaccino, a seconda del tipo di vacca da cui è munto possiamo trovare, oltre al classico, il Parmigiano Reggiano di Vacca Bruna Alpina, quello di Vacca Rossa reggiana e quello della Bianca Modenese. Quest’ultimo, in particolare, è presidio Slow Food e deriva da una razza, la Bianca Modenese appunto, che è stata a rischio estinzione e di cui esistono oggi solo poche centinaia di esemplari. Diverse varianti per un autentico tesoro del nostro patrimonio gastronomico. Dietro ogni forma di Parmigiano Reggiano c’è, infatti, un vero e proprio mondo, che vede coinvolti diversi attori, dal casaro al battitore. Tutti interpreti di un’arte antica, che si tramanda da secoli e che vale la pena di conoscere più da vicino. Come in occasione dell’iniziativa Caseifici Aperti, che si svolge due volte all’anno. Concepita dal consorzio, si tratta di una manifestazione che, nell’arco di un fine settimana, da modo di accedere ai caseifici dove si produce il Parmigiano Reggiano e assistere alle varie fasi di lavorazione, con possibilità di degustazioni e acquisti presso gli spacci aziendali.

    Reggio Emilia, non solo Lambrusco

    gnocco fritto salumi lambrusco

    Foto: Roberto Caravaggi

    Il Parmigiano Reggiano è l’ideale trait d’union tra la bassa parmense e la provincia di Reggio Emilia, che ne rappresenta l’ideale continuazione. Il Parmigiano Reggiano anche qui è di casa e, in particolare, nella sua pregiata versione Vacche Rosse. Ma le terre di Canossa, così denominate a richiamo della figura di Matilde di Canossa, storica signora di questi territori, sono, in particolare, permeate da un rosso rubino vivace, che scorre a fiumi, spumoso e fruttato ad allietar le tavole. Stiamo parlando del Lambrusco, il vino più rappresentativo dell’Emilia, di cui esistono diverse versioni, legate soprattutto alla zona di produzione, e altrettante denominazioni associate. Tra queste c’è, appunto, il Lambrusco Reggiano DOC. Sia secco che amabile, dove si accentuano le note fruttate che lo caratterizzano, è un vino che ben si accompagna ai sapori rustici del territorio.

    Eccellenza assoluta del reggiano è, infine, l’Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia DOP. Riconosciuto come prodotto DOP nel 2000 e oggi tutelato dall’omonimo consorzio, è prodotto di pregio assoluto. È a base unicamente di mosto d’uva cotto, che viene fermentato, acetificato e lasciato quindi invecchiare in botti di legno, generalmente sistemate in soffitte o solai di appositi locali, per almeno dodici anni. E’ un prodotto d’intensità e complessità aromatica tale da riuscire, anche con una piccola quantità, ad arricchire e esaltare i sapori delle pietanze cui viene accompagnato. Tipico è stillarne qualche goccia su scaglie di Parmigiano Reggiano da consumare in purezza. La sua maturazione è molto legata alle condizioni climatiche, motivo per cui la DOP è riconosciuta per i soli territori di Reggio Emilia e Modena.

    Modena, tra acetaie e ciliegi

    Modena, appunto. Ecco un’altra tappa irrinunciabile lungo la Via Emilia. Detto dell’Aceto Balsamico Tradizionale DOP e dei già citati Parmigiano Reggiano e Lambrusco, ci sono altri prodotti che caratterizzano questa provincia. A partire da due IGP legate della tradizione legata agli insaccati suini, quali Cotechino e Zampone Modenese. Entrambi tutelati da un disciplinare di produzione, sono costituiti dalla carne ottenuta dalla muscolatura striata del maiale, cui si aggiungono grasso e cotenna, insaporita poi con pepe, sale, vino, spezie ed erbe aromatiche. Il composto di carne aromatizzata viene successivamente insaccato in budelli o involucri naturali o artificiali, nel caso del cotechino. Lo zampone, invece, viene insaccato direttamente nella zampa anteriore del maiale, da cui il nome. Questa è la differenza sostanziale tra due specialità legate da stretta parentela.

    La terra natale delle tigelle

    Modena e la sua provincia sono, tuttavia, anche patria delle tigelle. Piccoli dischi di pasta spessa poco meno di un centimetro e del diametro generalmente tra i 6 e gli 8 centimetri, che prendono il nome dai supporti in terracotta o pietra refrattaria utilizzati per cuocerle. La cottura avveniva ponendo sul fuoco una pila coi dischi di pasta inseriti tra una tigella e l’altra. L’impasto originale è a base di farina, acqua, sale e lievito. Come per ogni preparazione casalinga, tuttavia, ne esistono varie interpretazioni. A partire dal tipo di farina utilizzata (generalmente 0 o 00), passando per l’acqua (c’è chi preferisce usare quella gassata), fino a versioni che prevedono l’aggiunta di latte e olio o strutto, per agire su morbidezza e sapore. Servite calde e tagliate a metà, ben si prestano a essere farcite con salumi e formaggi locali.

    Dal modenese, infine, non ci si può congedare senza una citazione per la Ciliegia di Vignola IGP. Croccante e succosa come poche altre varietà, prende il nome dall’omonima cittadina, che vanta una tradizione storica in fatto di coltivazioni di ciliegio. Quando si attraversa la provincia modenese, basta uscire appena dal contesto urbano per trovarsi immersi in distese di frutteti, dove in stagione crescono rigogliosi grappoli di questo goloso frutto. Fermarsi in qualche azienda agricola, acquistarle e assaporarle appena colte è una parentesi di piacere da non negarsi.

    Bologna, un po’ dotta e un po’ grassa

    mortadella bologna

    Foto: Roberto Caravaggi

    La Dotta… e la Grassa: sono due degli appellativi che la tradizione popolare associa a Bologna e alla sua provincia. E se dotta è riferito al suo essere sede dell’università più antica del mondo (fondata nel 1088), l’aggettivo grassa ben richiama la ricchezza di sapori e l’opulenza che ne caratterizza la tradizione in cucina. Dici Bologna e pensi subito all’insaccato di cui è praticamente sinonimo. La Mortadella Bologna è una IGP talmente identificata col territorio da essere comunemente detta bologna, appunto. Colore rosa vivo, punteggiato dal bianco del grasso e, talvolta, da scaglie di verde pistacchio, sprigiona un profumo inconfondibile. Viene spesso denigrata, considerandola particolarmente grassa e associandola all’utilizzo di carni di scarto. In realtà, non è più grassa di altri salumi e per la sua preparazione sono impiegati solo tagli di pregio del maiale. Proprio per questo, nel 2001, è nato il Consorzio Mortadella Bologna IGP, che ne tutela il marchio e garantisce standard produttivi di alta qualità. Bologna, tuttavia, è anche sinonimo del classico ragù alla bolognese, è un sugo a base di polpa di manzo macinata, insaporito da un intingolo con pancetta, olio o burro e odori. La versione originale era in bianco, ovvero fatta sfumare con vino e lasciata sobbollire nel brodo. Oggi però è nota soprattutto la versione rossa, che prevede l’aggiunta di pomodori pelati e, sul finire, un po’ di latte.

    Tra sfogline e tortellini

    tortellini bolognesi

    Giorgio Morara/shutterstock.com

    Il ragù è condimento denso e saporito, tradizionalmente usato per la pasta fresca all’uovo, come le classiche tagliatelle alla bolognese, o per la preparazione delle lasagne. La lasagna è un altro grande classico per cui Bologna è nota. Qui al classico ragù rosso viene aggiunta la besciamella, ottenendo la farcitura degli strati di sfoglia, che vanno poi a sovrapporsi in una teglia e quindi cotti al forno. Anche i tortellini affondano le loro radici a Bologna, nonostante le origini storiche siano più incerte e contese con altre province emiliane. A sostegno del legame con il capoluogo emiliano è la ricetta depositata presso la Camera di Commercio dell’Industria e dell’Artigianato di Bologna nel 1974. Un documento stilato dalla cosiddetta Dotta Confraternita del Tortellino e che fa riferimento alla preparazione dei tortellini in brodo di carne. In generale è la cultura della pasta fresca all’uovo a caratterizzare la cucina bolognese. È nota la figura delle cosiddette sfogline, donne di casa che sapientemente impastano e tirano lunghe sfoglie di pasta, da cui creare, appunto, tagliatelle, tortelli, lasagne e tanti altri manufatti di pasta fresca.

    Prima di abbandonare Bologna, tuttavia, vale la pena di citare anche la Patata di Bologna DOP. Una varietà di patata a pasta gialla e soda, molto versatile in cucina. Diffusasi nelle campagne bolognesi a partire dal XVII secolo, è la prima ad avere ottenuto, il 19 marzo 2010, il riconoscimento di DOP e ad avere un consorzio di tutela.

    patata bologna dop

    Facebook.com/patatadibolognadop

    Romagna in fiore

    Proseguendo il viaggio verso sud, una volta lasciatisi alle spalle Bologna, si entra in Romagna. Castel San Pietro, Imola e Faenza, nota per l’arte decorative delle ceramiche (di cui esiste persino un museo), sono le città che s’incontrano lungo la Via Emilia. Sullo sfondo, da un lato i dolci rilievi collinari, dall’altro distese di terra pianeggiante, dov’è tutto un fiorire di frutteti. Pere, mele, cachi, albicocche, pesche: ogni stagione dona generosi frutti, tra cui spicca indubbiamente la Nettarina di Romagna IGP. Si tratta di una pesca dalla superficie esterna completamente glabra, caratterizzata da un rosso vivace, punteggiato talvolta da qualche tipica lentiggine, e alternato a sfumature di giallo o bianco, a seconda che si tratti di una varietà a pasta gialla o a pasta bianca, appunto. Molto succosa e zuccherina, è una vera prelibatezza di questa terra. Terra che regala anche ottimi oli, come l’Olio Extravergine di Brisighella e l’Olio Extravergine dei Colli Romagnoli. Due prodotti DOP, che raccontano quanto l’entroterra romagnolo sappia essere generoso. Come il suo popolo, del resto.

    Si fa presto a dire piada

    piada crudo squacquerone

    Foto: Roberto Caravaggi

    Genuinità e sapori che parlano sincero e che sanno conquistare con la loro semplicità, come la piadina romagnola. La piadina, chiamata più confidenzialmente piada, nasce come pane dei poveri da quella tradizione contadina per cui il pane era un lusso che ci si poteva permettere solo in rare occasioni, come per il pranzo della domenica. Durante la settimana, invece, si ripiegava su questa spianata a base di farina, acqua, sale e strutto. Ingredienti che non mancavano mai in ogni famiglia e di cui la sapienza delle ‘zdore hanno saputo fare tesoro. Quella dell’azdora è una figura chiave della cultura romagnola. È il termine con cui si identificano le donne di casa, quelle che si occupavano di crescere i figli e, più in generale, dell’economia domestica, sopperendo alla prolungata assenza da casa dei mariti. Aspetto comune tanto alle realtà costiere, con gli uomini in genere dediti alla pesca, quanto a quelle dell’entroterra, dove si faticava tutto il giorno nei campi.

    Dalle mani delle ‘zdore deriva quella che oggi è una delle specialità più apprezzate di questa regione. La piadina romagnola è ormai un’istituzione, che conta sempre più estimatori e che, non a caso, ha ottenuto (nel 2013) anche il riconoscimento di prodotto IGP. Si fa presto, tuttavia, a dire piadina. Oltre a contare tante interpretazioni quante sono le case in cui ogni ‘zdora custodisce la sua personale ricetta, le caratteristiche variano anche a seconda della zona. Se nel ravennate e nella provincia di Forlì-Cesena si presenta più stretta di diametro, ma più spessa e friabile, scendendo verso Rimini è nota nella sua variante più larga e sottile. Al punto che si parla proprio di piadina sottile alla riminese. Farcirla poi diventa un puro esercizio di golosità, che si presta a incontrare ogni genere di gusto. La più tipica è con prosciutto crudo, Squacquerone di Romagna DOP e rucola, mentre la più legata alla tradizione è forse quella alle erbe di campo.

    piada in accompagnamento

    Foto: Roberto Caravaggi

    Birre artigianali, Sangiovese e Albana

    La piadina ben s’accompagna a una buona birra, come l’ottima Birra del Poeta, dedicata a Giovanni Pascoli, poeta che tanto ha decantato la sua terra, o le artigianali del birrificio La Mata, che coltiva le materie prime con metodi da agricoltura integrata. In alternativa, Romagna è sinonimo di Sangiovese, uno dei vini a marchio DOC più noti e diffusi in Italia. E per brindare alla conclusione di questo intenso e suggestivo viaggio lungo la Via Emilia e i suoi tesori, la chiosa ideale è una fetta di ciambella accompagnata da un bicchiere di Albana. È uno dei rituali tipici con cui si concludono le cene romagnole, appena prima di dare il via a canti o balli tradizionali. La ciambella romagnola è un dolce semplice, una torta a base di farina, zucchero e uova, alta pochi centimetri e dalla forma tonda o a filoncino. Senza farciture, alpiù spolverata con un po’ di zucchero a velo, si è soliti accompagnarla con l’Albana. Con la DOCG Romagna Albana si fa riferimento a questo vino bianco tipico della zona compresa tra le province di Bologna, Ravenna e Forlì-Cesena. Poco frizzante, dal colore giallo paglierino, è prodotto sia nella versione secca che in quella dolce. Quest’ultima, in particolare, regala profumi fruttati e lascia in bocca un retrogusto amabile. Proprio come questa terra, scrigno di sapori e saperi antichi, idealmente racchiusi nell’abbraccio tra l’immensità del mare e le vette spigolose su cui svettano suggestivi borghi come Verucchio e San Leo e dietro i quali, da qualche parte, si nasconde il Fumaiolo, dove il Tevere inizia il suo lungo percorso sino a Roma. Ma questo è un altro viaggio, un’altra storia.

     

    Nell’auspicio che questo ideale viaggio lungo la Via Emilia vi abbia ingolosito, quali sono le specialità che portereste volentieri via con voi? A quali tappe di questo percorso non rinuncereste?

    Nato a Milano, vive da sempre a Locate di Triulzi, nella provincia sud del capoluogo lombardo. Oltre a collaborare con alcune testate giornalistiche locali è food blogger per storiedifood.com, dove racconta soprattutto di specialità e piccole realtà artigianali. Il suo piatto preferito è la piadina romagnola perché, nella sua semplicità, sa appagare come poche altre cose.

    Lascia un commento