burger vegetale

Meat sounding: è giusto chiamare “carne” ciò che non lo è?

Giulia Zamboni Gruppioni Petruzzelli
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    Il problema della produzione e del consumo di carne è stato sollevato da tempo. La filiera alimentare e il sistema sociale in generale, infatti, si interrogano sugli aspetti ecologici, salutistici, etici ed economici di questo tema, più o meno nuove sono invece le due risposte del mercato, nate per far fronte alle nuove tendenze di consumo (come quelle dei vegani e dei vegetariani) e ad alcune di queste istanze: i cibi vegani che assomigliano alla carne da un lato, e la carne sintetica dall’altro. 

    Altrettanto nuova è quindi la necessità di dare un nome comprensibile ma non ingannevole a queste proposte alimentari, oggi assimilate nella definizione e nell’aspetto (quando non anche nel gusto) ai prodotti di origine animale. Pensiamo, ad esempio, ai “burger di soia” o alla “bistecca di seitan” che richiamano esplicitamente l’analogo di carne, pur non contenendone neanche un po’. Un fenomeno che ha preso il nome di meat sounding, ovvero il sembrare carne solo nel nome ma non nella sostanza, e che oggi rischia di creare confusione Ma cosa dice la legge? E come si esprime l’Unione Europea in merito?

    La professoressa Eleonora Sirsi, ordinario di diritto agro-alimentare nell’Università di Pisa, ci ha aiutato a inquadrare la questione della denominazione dei prodotti vegetali che imitano la carne e non solo, e a inserirla in un contesto più ampio, in cui entrano in gioco anche la salute dei consumatori, il benessere degli animali e la sostenibilità ambientale. 

    burger vegetali

    Martin Rettenberger/shutterstock.com

    Meat sounding: che cos’è questo fenomeno 

    Emerso di recente, il meat sounding consiste nel chiamare carne ciò che carne non è o, almeno, non nel senso più comune del termine, inteso come derivante da animali vivi. È il caso delle salsicce di tofu, dei salumi e degli hamburger vegani simili a quelli immessi sul mercato da aziende come la Impossible Food e la Beyond Meat, o della carne prodotta in laboratorio dalla Memphis Meat: tutte realtà che, nel presentare i propri prodotti, ricorrono all’uso di nomi tipici delle ricette normalmente a base di carne, sollevando non poche preoccupazioni. La prima riguarda proprio i consumatori e la possibilità che alcuni di loro possano essere tratti in inganno dall’uso non veritiero di questa terminologia. La seconda interessa in particolare i produttori di alimenti di origine animale che, in concomitanza con la crescita di certe abitudini di consumo come quella dei vegani in Italia, sentono minacciata la loro attività e specificità. Come scriveva sul suo profilo Facebook Paolo De Castro, europarlamentare e Primo Vice Presidente della Commissione Agricoltura e sviluppo rurale del Parlamento europeo, autore nel 2016 di una petizione alla Corte di Giustizia Europea: “Molto spesso, come nel caso della bresaola vegetariana o della mortadella vegana, ciò di cui si abusa non è però di un nome generico, ma di quello di uno specifico prodotto a denominazione protetta”, pratica che metterebbe a rischio l’autenticità degli stessi prodotti DOP. 

    beyond meat confezionata

    shutterstock.com

    Esiste già una legge sul meat sounding?

    Specifichiamo subito un punto: al momento non esiste una legge che regolamenti l’etichettatura dei prodotti di “carne non carne” o di carne in vitro in modo univoco e condiviso a livello europeo, anche se qualche movimento in questo senso c’è. La professoressa Sirsi è convinta, infatti, che “l’Unione Europea interverrà presto per cercare di stabilire l’impiego di questa parola, anche per rispondere alla spinta verso il chiarimento che viene da più parti. Oltre che per i consumatori, infatti, questa situazione crea anche problemi di concorrenza e di definizione delle relazioni commerciali tra gli operatori. A livello amministrativo, si apre inoltre la delicata questione del sostegno al settore agricolo, sempre tenendo  conto di un giusto equilibrio tra allevatori e coltivatori”. D’altra parte, invece, esiste una norma generale sulla denominazione alimentare e un precedente che ricorda da vicino il problema del meat sounding. 

    La denominazione alimentare e il caso dei formaggi vegetali

    “La denominazione degli alimenti” prosegue la professoressa Sirsi, “è regolata a livello europeo dal Regolamento dell’Unione europea 1169/2011, sulla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori”. L’articolo 2 del Regolamento definisce 3 tipi di denominazione possibile per un alimento:

    • La denominazione legale, ovvero il nome prescritto dalle
      disposizioni dell’Unione europea o, in mancanza, dalle norme dello Stato membro; 
    • La denominazione usuale, ovvero il nome entrato nell’uso comune dello Stato membro; 
    • La denominazione descrittiva, cioè una definizione articolata dell’alimento utile a far sì che i consumatori sappiano cosa contiene e come è preparato e non lo confondano con altri prodotti.

    L’articolo 17 del suddetto Regolamento  afferma che in mancanza di una denominazione legale, si può ricorrere a quella usuale e che, solo in assenza di quest’utima, è possibile ricorrere alla definizione descrittiva. “Per questo”, prosegue Sirsi, “la sentenza sui formaggi vegetali del 2017 ha disposto che i prodotti lattiero-caseari a base vegetale non potessero fare uso della parola “formaggio” o “latte” che sono parole dense di significati, con una lunga storia e una ricca regolazione sul mercato”. Infatti, utilizzare la nomenclatura “latte di tofu” costituiva una contravvenzione di tutte e tre le denominazioni: il latte – per legge – è solo quello proveniente dalla ghiandola mammaria di un animale, quindi “latte di tofu” non è una dicitura di uso comune e solo sostituendo la parola “latte” con “bevanda” si poteva ricadere nella denominazione descrittiva utile all’orientamento del consumatore. Le eccezioni, in quel caso, riguardano solo quei prodotti la cui definizione è entrata nel parlato quotidiano tanto da non generare alcun malinteso, come per il latte di mandorla o il burro di cacao (l’elenco di questi prodotti è indicato dalla
    decisione della Commissione n.791 del 2010).

    Cosa si intende per “carne” secondo la legge

    petto di pollo grigliato

    Marian Weyo/shutterstock.com

    Situazione analoga si verifica per la finta carne, ma anche il finto pesce: basti pensare che negli USA esiste già TUNA ( “Good catch”) , un simil-tonno vegano. La stessa norma (Allegato VII – Indicazione e designazione degli alimenti) del reg.1169 /2011) ci aiuta a capire cosa si intende, sul piano giuridico, per carne, ovvero: “I muscoli scheletrici delle specie di mammiferi e di volatili riconosciute idonee al consumo umano con i tessuti che vi sono contenuti o vi aderiscono, per i quali il tenore totale di grassi e tessuto connettivo non supera i valori qui di seguito indicati…”. Come spiega la professoressa, “il riferimento a prodotti che derivano dagli animali è palese. In maniera analoga, è interessante notare anche il paragrafo contenuto nel medesimo documento dedicato alla designazione delle carni macinate (Allegato VI),  in cui si cita esplicitamente la specie animale”. Insomma, ne deriva che, se anche una norma precisa sul meat sounding non esiste, la definizione di carne e pesce non è lasciata alla libera interpretazione dei produttori, così come non lo sono i loro diretti derivati.  

    Meat sounding: a che punto è la normativa 

    Bisogna dire, però, che qualche tentativo di intervento per impedire l’utilizzo della parola “carne” nelle etichette alimentari c’è stato. “Ci sono state due sentenze sulla carne tedesca negli anni ‘70-’80 inerenti la possibilità di definire carne quei prodotti in cui, oltre a questa, vi fossero anche altri ingredienti” ricorda la professoressa Sirsi, “il che significa che c’è una casistica precedente della Corte di Giustizia che ha preso in considerazione anche la denominazione di prodotti carnei, anche se non con riferimento al caso della carne vegetale”. 

    Da non dimenticare, poi, il tentativo di emendamento al Regolamento 1308/2013, documento che norma l’organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli, dello scorso anno. Sirsi prosegue, spiegando che “in particolare l’emendamento n.667 (COM (2018)394 final) prevedeva di inserire nell’Allegato VII che ha ad oggetto le denominazioni di vendita delle carni la precisazione secondo la quale “ Le denominazioni solitamente usate per designare le carni e i prodotti di origine animale, quali precedentemente definiti, non possono essere utilizzate per
    descrivere, promuovere o commercializzare prodotti alimentari costituiti principalmente da proteine di origine vegetale. Tali denominazioni comprendono, in particolare: – bistecca;– salsiccia;– cotoletta;– burger;– hamburger:
    la motivazione fa riferimento alla necessità di “ vietare talune pratiche commerciali ingannevoli per i consumatori che associano in particolare termini come bistecca, salsiccia, cotoletta, burger o hamburger a prodotti che non sono affatto a base di carne così come nel settore dei prodotti lattiero caseari il cui quadro riguardante le denominazioni è stato precisato dalla Corte di Giustizia dell’UE in una sentenza del 14 giugno 2017 , dato che un prodotto a base di carne è fatto esclusivamente da materia animale esso deve contenerne costituenti”. Di tale emendamento, a firma
    degli eurodeputati ed Éric Andrieu, Karine Gloanec Maurin si sono perse le tracce, “ma è comunque interessante, perché segnala che il legislatore ha ben presente il problema e vorrebbe o potrebbe intervenire”, ci spiega Sirsi.

    seitan con contorno

    Sharaf Maksumov/shutterstock.com

    La delibera francese 

    Nel frattempo, è intervenuta sulla questione anche la Francia che al suo Code Rural et de la pêche maritime ha aggiunto l’art. 654-23 secondo cui le denominazioni associate ai prodotti di origine animale non possono essere utilizzate per commercializzare dei prodotti contenenti una parte significativa di materie di origine vegetale. Giustificazione simile a quella messa sul tavolo europeo, ma iter diverso, dato che in Francia questo è già realtà. Quindi, come si comporterà l’Europa? “È possibile che l’UE decida che ogni Paese si regoli autonomamente, ma questo aprirebbe ad altre criticità nel contesto del mercato unico… Personalmente ritengo che se, oltre alla Francia, dovessero muoversi altri Paesi, questo potrebbe costituire uno stimolo per il Legislatore a intervenire per uniformare la regolazione”. 

    Perché chiamarla carne?

    Il meat sounding ha poi in sé un’altra contraddizione evidente che riguarda l’adozione di un nome vecchio, già esistente, come quello della carne per un prodotto del tutto nuovo, anche nei contenuti, che forse meriterebbe di avere una denominazione propria.

    Qualche tempo fa, era stata avanzata l’ipotesi di sostituire la dicitura “burger” con una meno equivoca “dischi di” soia/tofu/seitan/etc. Una possibilità non particolarmente allettante che alcuni Stati americani, come il Missouri e l’Arkansas, stanno già affrontando, in conseguenza della normativa che vieta, in questi territori, l’uso del termine “carne” per prodotti di origine vegetale. Volendo vedere la cosa in senso positivo, potremmo definirla come la conferma di un prodotto nuovo e con una sua dignità che, per questo, deve fare i conti anche con un’emancipazione linguistica. Una circostanza che, per quanto auspicabile, è ancora lontana se è vero che, come ci racconta Sirsi: “di recente uno dei maggiori produttori di carne vegetale ha condotto una ricerca per verificare cosa sarebbe successo se avesse eliminato del tutto il termine “burger” dai propri packaging. Ebbene, la proiezione ottenuta era di un completo crollo dei profitti e del valore economico dei suoi titoli”. 

    seitan grigliato con contorno

    Karl Allgaeuer/shutterstock.com

    Il bisogno dell’onnivoro 

    Per ora, quindi, l’associazione diretta con la carne conviene, tanto da non essere solo un fatto lessicale. Il food design richiama chiaramente qualcosa di conosciuto, la forma di questi prodotti è ricalcata su quelli di origine animale, così come lo è l’immagine stampata sulla confezione. Cosa che fa leva, con le parole della professoressa Sirsi, sul “ bisogno dell’onnivoro”, ovvero la necessità di cibarsi anche di carne, almeno visivamente. Motivo per cui certi prodotti vegetali imitano la carne persino nella consistenza e nell’esperienza di gusto, grazie al ricorso alla barbabietola per ricreare il colore rosso tipico del sangue o alla “leghemoglobina” (emoglobina vegetale) che sfrigola sulla piastra come farebbe una vera bistecca. “Riflettiamo un attimo: chi è il vero consumatore su cui puntano queste aziende? I vegani, sì, ma soprattutto i flexitariani, ovvero i consumatori critici, che vorrebbero tenere insieme il sapore, il gusto e l’immagine della carne evitandone, però, gli aspetti problematici, le conseguenze sulla salute, il clima e la sofferenza degli animali. Questa è la fascia più ampia perché ormai tutti avvertiamo alcune istanze come condivisibili, anche se non facciamo scelte alimentari radicali o fortemente ideologiche”. Come detto, infatti, non si tratta solo di tutelare chi acquista: quella del meat sounding rimane anche una faccenda di interessi, dei produttori di carne fortemente avversi a questo tipo di sviluppo, e dei produttori di alimenti vegetali, estremamente favorevoli. 

    Oltre l’etichetta: sicurezza alimentare e sostenibilità 

    All’inizio dell’articolo abbiamo ricordato quali sono le istanze più problematiche legate al consumo di carne, istanze da cui sono scaturite anche nuove esigenze di mercato cui i prodotti di finta carne fanno riferimento. Ma quanto sono virtuose, anche a livello legislativo, queste alternative vegetali e quanto immuni da perplessità simili a quelle che riguardano il mondo delle proteine animali? 

    La sicurezza alimentare 

    “Non mangiare nulla che tua nonna non riconoscerebbe come cibo”, questa è una delle citazioni più celebri di Michael Pollan, giornalista e saggista statunitense specializzato in cultura dell’alimentazione. Difficile quindi che i burger vegetali, con la loro interminabile lista di ingredienti come maltodestrine, lieviti, oli vari, glicerina, gomma arabica, acido ascorbico, estratti vari, acido acetico, etc. possano essere riconosciuti come cibo, e non solo da una nonna. Si tratta di prodotti iperprocessati i cui effetti benefici per la salute non sono ancora stati supportati da evidenze scientifiche. Questo significa, in altre parole, che non possiamo essere certi che ciò che contengono, se ingerito per i prossimi trent’anni, faccia davvero bene al nostro organismo. “La nostra normativa in materia di sicurezza non soltanto non prende in considerazione questi prodotti” conferma Sirsi, “ma nel disegnare il discorso di sicurezza non definisce mai qual è l’alimento sicuro. Il regolamento 178 del 2002 parla infatti di alimento a rischio, non di alimento sicuro che è una cosa un po’ diversa”. Una nocività che si valuta sulla base di una serie di criteri, ma certamente non rientra nella quantità degli ingredienti della composizione di questi sostituti della carne. 

    carne sintetica

    shutterstock.com

    Sostenibilità ambientale e identità 

    E qui si viene a un altro aspetto che crea non pochi dubbi e anche una sensazione di diffidenza: da un un po’ di tempo si è tentato di riavvicinare, negli USA ma non solo, il consumatore al cibo, per riallacciare quel rapporto tra materia prima e alimento finito che con lo sviluppo industriale si è andato sfilacciando. È cresciuta, quindi, la volontà di fare affidamento su filiere sempre più corte e su ricettazioni sempre più chiare. Ecco allora che la pseudo-carne riallontana invece enormemente il pubblico dal cibo e dalla propria identità alimentare. “La storia e la cultura alimentari italiane hanno una lunghissima tradizione di pietanze a base di carne, spesso legata anche a riti e festività religiose” prosegue Sirsi, “e in alcuni territori, come quelli collinari, l’economia alimentare si basa proprio sull’allevamento, anche per mancanza di alternative agricole praticabili su larga scala”. 

    Davanti all’imperativo della sostenibilità è doveroso trovare delle alternative, ma non è detto che queste corrispondano unicamente a soluzioni sintetiche, le cui implicazioni sul territorio non sono peraltro sempre rosee: si pensi, ad esempio, alle conseguenze della produzione della soia per la biodiversità o all’impatto ambientale dell’avocado. Intere economie e settori alimentari potrebbero essere a rischio se dovessero dilagare questi prodotti. “Questo però non vuol dire demonizzare una volontà di innovazione di prodotto, che pure porta avanti la nostra industria agroalimentare e che è così importante anche a livello commerciale, ma senza giocare sull’equivoco del prodotto carne che è ingannevole in se stesso”.

    Risposte complesse per un problema complesso 

    Nel libro “The Wizard and the Prophet” Charles Mann descrive due grandi correnti che attraversano la questione della produzione alimentare e della relazione con la terra e con le risorse: quella dei profeti, il cui mantra è la riduzione (della produzione, degli allevamenti intensivi, del consumo, etc.), e quella dei maghi, che invece credono nella tecnologia e nell’innovazione scientifica. “Purtroppo, non c’è una ricetta definitiva e nella realtà non vincono né i maghi né i profeti. La risposta semplice a un problema complesso non esiste, occorre una risposta altrettanto complessa”. L’intervento per far sì che si raggiunga un equilibrio nel settore agroalimentare deve essere guidato da un certo realismo e, pertanto, non può che essere estremamente articolato. Il ricorso al meat sounding o la penalizzazione di nuovi alimenti sono, in questo senso, risposte semplicistiche a una condizione che ha conseguenze macroscopiche e di lunga durata. Meglio considerarle tutte. 

     

    E voi cosa ne pensate: siete favorevoli o contrari all’abolizione di termini che ricordano la carne per i prodotti che non la contengono?

    Giulia è nata a Bologna ma geni, pancia e cuore sono pugliesi. Scrive principalmente di tendenze alimentari e dei rapporti tra cibo e società. Al mestolo preferisce la forchetta che destreggia con abilità soprattutto quando in gioco c'è l'ultima patatina fritta. Nella sua cucina non deve mai mancare... un cuoco!

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