Cibo biologico: per tutti o solo per pochi? Le prospettive dell’agricoltura bio
Il mercato italiano del biologico è sempre più rilevante, con volumi di vendita in ascesa, che testimoniano il crescente favore per questi alimenti da parte dei consumatori. Tuttavia, non sono ancora alle spalle i dubbi relativi alla produttività e ai costi superiori legati a questa forma di agricoltura. Ma sarà tutto biologico il cibo del futuro? Può davvero contribuire a sfamare il mondo o resterà appannaggio di una minoranza economicamente avvantaggiata e disposta a pagare di più? Questi temi sono stati dibattuti all’Accademia italiana di Agricoltura di Bologna, dove il dottor Enzo De Ambrogio, accademico ed esperto di ricerca sulle sementi, ha esposto una relazione dai contenuti interessanti e per certi versi fuori dal coro.
Biologico, sarà così il cibo del futuro? Limiti e prospettive dell’agricoltura bio
Per nutrire il pianeta possiamo davvero affidarci all’agricoltura biologica? Da questa domanda partiva la relazione del dottor Enzo De Ambrogio, che ha analizzato, da un punto di vista critico, i punti deboli e le prospettive del bio. “È interessante notare che negli anni della recente crisi economica i consumi alimentari in Italia sono calati, mentre nello stesso periodo la domanda di biologico è aumentata. L’agricoltura biologica che noi conosciamo e che sta avendo successo, tuttavia, non è in grado di sfamare il mondo, perché offre prodotti in quantità inferiore a prezzi superiori rispetto all’agricoltura convenzionale, pur essendo apprezzata da una minoranza della popolazione, pronta a pagare di più”. In termini di produttività, in media, la differenza a sfavore del biologico pesa per il 20-25%, di conseguenza questi alimenti sono più cari di quelli convenzionali.
L’agricoltura biologica si basa su tre principi, riconosciuti nel 2005 dall’Assemblea generale IFOAM di Adelaide.
- Benessere. “L’a.b. dovrà sostenere e favorire il benessere del suolo, delle piante, degli animali, degli esseri umani e del Pianeta, come un insieme unico e indivisibile”.
- Ecologia. “L’a.b. dovrà essere basata su sistemi e cicli ecologici viventi, lavorare con essi, imitarli e aiutarli a mantenersi”.
- Equità. “L’a.b. dovrà costruire relazioni che assicurino equità rispetto all’ambiente comune e alle opportunità di vita”.
Alla luce di queste basi, De Ambrogio invita a chiedersi se questa forma di agricoltura potrà fornire produzioni maggiori a prezzi più accessibili, senza rinunciare alla sostenibilità. Secondo il relatore, questo potrà verificarsi se il bio riuscirà a innovarsi, liberandosi dai pregiudizi e dalla disinformazione.
Pregiudizi e disinformazione frenano un vero sviluppo del bio
De Ambrogio sostiene che questa forma di agricoltura sconta la mancanza di varietà selezionate, oltre ai problemi relativi alla protezione delle colture, alla fertilità del suolo e alla presenza di frodi e casi di biologico falso, difficili da combattere e spinti dal divario di prezzo tra bio e non bio. Sul primo fra questi aspetti, in particolare, peserebbero i pregiudizi e la disinformazione, diffusi a volte senza reali basi scientifiche.
Secondo il relatore, è stata imbastita una contrapposizione artificiosa tra i semi selezionati dagli agricoltori e le varietà commerciali, create dalle società sementiere, ritenute tutte multinazionali, che servirebbero solo l’agricoltura intensiva. Per chi mantiene una visione radicale, solo i semi delle varietà locali selezionati dagli agricoltori sarebbero buoni e adatti al biologico, mentre per i meno estremisti le vecchie varietà, anche se selezionate dalle società sementiere, sono preferibili per il bio, in quanto ottenute prima dell’avvento dell’agricoltura intensiva.
Pur confermando la partecipazione dei contadini alla selezione delle diverse specie coltivate nel corso dei millenni, De Ambrogio puntualizza che dalla fine dell’Ottocento proprio gli agricoltori, forti dei loro saperi, richiesero alle società sementiere – che non erano multinazionali – varietà più produttive, per sfuggire alla denutrizione che spesso li affliggeva. Pertanto, costringere l’agricoltura biologica a utilizzare solo cultivar obsolete significherebbe negarle le possibilità che può offrire il miglioramento genetico, relegandola al ruolo di fornitrice di cibo per una minoranza di persone, affascinate dalla narrazione di un bel tempo che fu, in realtà mai esistito.
Il miglioramento genetico non va temuto
Sul versante della disinformazione, seguendo l’analisi del relatore, i bersagli principali sarebbero gli ogm e la manipolazione genetica, concetti che presentati in modo superficiale e allarmistico incutono diffidenza e timore.
De Ambrogio afferma che non esistono al mondo varietà coltivate di grani ogm, quindi suscitare paure immotivate in questo senso è una pura mistificazione. Tutte le specie usate in agricoltura sono profondamente diverse dalle piante selvatiche originarie, che presentavano caratteristiche troppo inadatte alla coltivazione. L’ottenimento di cultivar di qualità, peraltro, si è basata su eventi naturali, come le mutazioni spontanee e le ibridazioni, che hanno generato la variabilità sulla quale è intervenuta la selezione naturale e successivamente l’opera dall’uomo. Questi eventi, talvolta, sono bollati negativamente come manipolazioni genetiche nocive, mentre invece si tratta di evoluzioni che non recano danni né all’uomo né all’ambiente.
Il miglioramento genetico, in sostanza, utilizza tecniche che imitano gli eventi spontaneamente riscontrabili in natura, operando in accordo coi principi del bio sopra citati. Peraltro, si tratta di un’attività necessaria per creare la variabilità funzionale all’agricoltura. Il relatore, però, precisa che quando la selezione è troppo focalizzata sulla produttività si possono perdere qualità nutrizionali e sensoriali, come abbiamo visto nel nostro approfondimento sui grani antichi. Fortunatamente, non tutti i programmi di miglioramento hanno trascurato questo aspetto fondamentale, come nel caso della selezione del grano duro aureo, impiegato per la pasta e dotato di peculiarità assenti in molte varietà che lo hanno preceduto.
Nello specifico, la selezione per il biologico, oltre a doversi svolgere in campi a essa riservati, richiede varietà dotate di grande flessibilità, in quanto più soggette alle variabili dell’ambiente, rispetto alle quali nel bio l’interazione è maggiore. Per ottenere queste piante si può ricorrere al miglioramento genetico evolutivo, che può prevedere la coltivazione congiunta di più sementi diverse.
Anche il tema della celiachia talvolta viene sollevato contro i grani selezionati, ma De Ambrogio ricorda che tutti i grani contengono glutine – mentre esistono varietà di cereali che ne sono prive, come il miglio e il teff – perciò sostenere il contrario è falso e pericoloso. Come evidenziava il professor Spisni nel nostro precedente approfondimento, nei grani antichi il glutine ha caratteristiche diverse e preferibili, ma è presente in quantità simili o superiori.
Uso del rame, fertilità del suolo e biodiversità
Nel dibattito sul biologico, uno dei punti più dibattuti e contraddittori è l’uso del rame per fini antiparassitari, per combattere funghi e batteri. Questo metallo pesante, però, si deposita nel terreno e non viene degradato, causando danni ai microorganismi e alla microfauna presente nel suolo. Non a caso, per la loro tossicità, i composti rameici sono stati inseriti fra i componenti candidati alla sostituzione. L’impiego di queste sostanze, secondo De Ambrogio, è in palese contrasto con il principio del benessere. Questa situazione ha incentivato l’avvio di progetti mirati a individuare dosi efficaci di rame inferiori ai limiti fissati per l’agricoltura biologica (4 kg a ettaro per anno), e soprattutto a identificare prodotti alternativi.
De Ambrogio evidenzia che non di rado i sostenitori del bio sono rigidi sul miglioramento genetico, ma più flessibili o distratti sui composti rameici e sulla loro nocività, forse perché questi prodotti funzionano e si usano da molti decenni. Oltre al rame, altri fitosanitari sono consentiti nel biologico, alcuni dei quali potenzialmente dannosi per l’ambiente, pertanto occorre ricercare altri prodotti efficaci e sostenibili, cioè in linea con l’idea di benessere. La ricerca sui nuovi principi attivi segue in gran parte le vie già tracciate, sfruttando il biocontrollo da parte di acari, insetti, batteri, funghi e virus, oltre a lavorare sugli stimolatori delle difese naturali delle piante. Il relatore ha ribadito che tutte le nuove possibilità dovranno essere valutate senza pregiudizi.
In agricoltura, al di là dei metodi seguiti, è fondamentale calcolare i costi e i benefici delle scelte che si intendono compiere, ha aggiunto il professor Giorgio Cantelli Forti, tossicologo e presidente dell’Accademia Nazionale di Agricoltura. Gli agrofarmaci non vanno criminalizzati, perché evitano la formazione di tossine pericolose, e quelli usati in convenzionale vengono sottoposti ad approfonditi studi tossicologici e agronomici. I limiti legali che vengono fissati per i residui di sostanze nocive sono estremamente garantisti rispetto alle concentrazioni potenzialmente dannose per l’essere umano. Circa il 70% dell’ortofrutta italiana risulta privo di residui, mentre non più del 2-3% supera le soglie di legge. Le autorità competenti, inoltre, effettuano controlli scrupolosi, perciò i consumatori sono ampiamente tutelati e non ha senso creare allarmismi ingiustificati. L’unico riferimento affidabile sui rischi tossicologici, ha sottolineato Cantelli Forti, resta la ricerca scientifica, che per essere supportata necessita di un’informazione corretta.
Riguardo alla qualità dei suoli, invece, per De Ambrogio non basta affermare che i terreni coltivati in biologico sono più fertili, ma bisogna attivarsi per conservare ed eventualmente aumentare la fertilità con appositi trattamenti. Alle colture vanno forniti gli elementi di cui hanno bisogno, evitando però gli sprechi e adottando le buone pratiche dell’agronomia, come l’introduzione di leguminose nella rotazione, le colture di copertura, i sovesci e l’uso di biostimolanti, oltre ai suggerimenti dell’agricoltura conservativa, come la copertura del terreno e le lavorazioni meno impattanti rispetto all’aratura. Inoltre, non basta affermare che i terreni sono ricchi di biodiversità, ma occorre individuare e utilizzare le modalità per favorire i microrganismi utili e contenere quelli dannosi. In commercio ci sono già biofertilizzanti, ma la strada è appena iniziata e la ricerca dovrà progredire per individuarne altri e per migliorarne l’utilizzo.
Anche il biologico deve evolversi
In conclusione, il dottor De Ambrogio sostiene che l’agricoltura biologica, per come la conosciamo oggi, è destinata comunque a proseguire, grazie al crescente favore che riscontra, seppur sostenuto da attività di marketing e argomentazioni talvolta fuorvianti. Dal punto di vista del fabbisogno alimentare mondiale, però, l’attuale modello – rivolto alla popolazione più ricca – non potrà contribuire adeguatamente.
Per questo, quindi, sarebbe necessaria un’evoluzione, per aumentare la produttività, abbassare i prezzi e offrire cibo biologico a una fascia di consumatori molto più ampia, rispettando il principio dell’equità. In questo modo, potrebbe davvero contribuire a nutrire il pianeta, e le tecniche innovative introdotte avrebbero un impatto positivo anche sull’agricoltura convenzionale, con un conseguente miglioramento della sostenibilità di tutto il sistema agroalimentare.
Secondo De Ambrogio, al bio del futuro, in sintesi, servirebbero:
- più ricerca e innovazione;
- meno ideologie e pregiudizi
- più informazione corretta e formazione per tutti gli attori della filiera.
Al di là delle definizioni e dei disciplinari di produzione, quindi, si dovrebbe perseguire un’agricoltura sostenibile, produttiva e alla portata di tutti.
E voi consumate abitualmente cibi da agricoltura biologica? Pensate che siano necessari progressi per renderla più accessibile?
Altre fonti:
Principles of Organic Agriculture