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Rosarno e Gioia Tauro, continua lo sfruttamento dei lavoratori agricoli

Angela Caporale
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    La stagione di raccolta degli agrumi nella Piana di Gioia Tauro, in Calabria, si è conclusa. La maggior parte delle oltre 3.000 persone che hanno lavorato nei campi nei mesi invernali si è spostata, la maggior parte verso Foggia per occuparsi degli asparagi e del trapianto delle piantine di pomodoro. Abbiamo già osservato quale sia la situazione del caporalato, in generale; a maggio 2018, invece, a 18 mesi dall’approvazione della Legge n.119 del 2016, Medici per i Diritti Umani ha pubblicato “I dannati della terra”: vediamo qual è il bilancio di questa ennesima stagione di sfruttamento con i dati del report MEDU a Rosarno e nelle zone limitrofe.

    Report MEDU: Rosarno, un altro inverno di sfruttamento

    tendopoli

    Secondo i dati raccolti dalla ong, che ha operato sul territorio calabrese per il quinto anno consecutivo, almeno 3.500 persone sono confluite nella piana per la stagione agrumicola e almeno il 60% di esse ha trovato un riparo nell’area di San Ferdinando, dove si trova quella che viene comunemente chiamata “vecchia tendopoli”, in un vicino capannone e in una fabbrica abbandonata. Poco distante si trova anche una tendopoli ufficiale, voluta dal Ministero dell’Interno e pagata con fondi regionali, che tuttavia è stata capace di accogliere al massimo 500 persone: un numero di molto inferiore alle effettive esigenze della zona.

    Circa un quarto della produzione nazionale di agrumi avviene in Calabria: nella Piana di Gioia Tauro sono ben 25.000 gli ettari di terreno dedicati ad arance, clementine, kiwi, limoni. E se, tradizionalmente, erano le donne della zona a occuparsi della raccolta, già dagli anni Novanta la necessità di manodopera ha attirato braccianti stranieri dal Maghreb, dall’Est Europa e, oggi, soprattutto dall’Africa sub-Sahariana. Le condizioni di lavoro, tuttavia, non sembrano migliorare: secondo quanto raccolto da MEDU, infatti, la modalità di pagamento più diffusa è ancora quella a cottimo, per cui una cassetta di arance viene retribuita 50 centesimi, una di mandarini un euro. La paga media giornaliera non supera i 25 euro, ben al di sotto della soglia minima fissata per legge. A ciò è necessario poi aggiungere la quota che viene pagata al caporale per il trasporto e per un panino da mangiare a pranzo, insieme a una bottiglietta d’acqua.

    report-medu

    Inoltre, il 72,2% delle persone venute a contatto con gli operatori della ong ha dichiarato di lavorare senza un regolare contratto, mentre gli altri hanno sì una lettera di assunzione, ma raramente in questa sono contenute informazioni come orario di lavoro, retribuzione e pagamento degli straordinari. Ancora più raramente queste indicazioni vengono poi rispettate. E se tra le iniziative promosse dalla legge contro il caporalato, c’era la creazione di alcune liste coordinate dai Centri per l’Impiego con l’obiettivo di regolarizzare le assunzioni dei braccianti stagionali, solo il 5% dei lavoratori è iscritto al CIP, il restante 95% ha dichiarato di non sapere nemmeno cosa sia.

    Eppure, secondo i dati ufficiali resi pubblici dal Commissario straordinario per l’area del Comune di Rosarno Andrea Polichetti, nel 2017 sono stati stipulati 21.000 contratti agricoli nella piana: 16.000 a italiani, 5.000 a stranieri. Quello che colpisce di questo dato, almeno secondo gli operatori di Medici per i diritti umani, è che, osservando quanto accade tra i campi, “la presenza di braccia nere impegnate nella raccolta è quanto mai evidente. Come è evidente dagli stivali infangati ed i guanti bucati dei lavoratori che vicino all’ora del tramonto si fanno strada in bicicletta tra le buche delle strade della Piana tornando a casa da una lunga giornata di lavoro.”

    Chi sono i “lavoratori” di Rosarno?

    La maggior parte delle persone che vengono coinvolte in questo sistema di sfruttamento sono giovani provenienti da Mali, Senegal, Gambia, Guinea e Costa d’Avorio. Solo il 10%, sempre secondo i dati di MEDU, si trova in una situazione di illegalità: la maggior parte ha ottenuto un permesso di soggiorno o è in attesa di una risposta alla domanda di protezione internazionale. Molti si trovano in Italia da meno di 3 anni, ma una piccola percentuale si è stabilita nel paese da più tempo, lavorava al nord ed è finita a Rosarno dopo aver perso il lavoro precedente a causa della chiusura delle fabbriche.

    Come emerge, appunto, dai dati sui contratti stipulati in zona, non sono soltanto gli stranieri a trovare un’opportunità di impiego a queste condizioni nella raccolta degli agrumi. Le informazioni a proposito dei lavoratori italiani, o comunitari come quelli di origine bulgara, sono più nebulose, ma diverse denunce suggeriscono come nemmeno in questo caso vengano effettivamente rispettate nella pratica le disposizioni di legge. Basti pensare ai casi di morte di braccianti agricoli: il marito di Paola Clemente, morta nel 2015 ad Adria, ha dichiarato, infatti, che guadagnava circa 27 euro al giorno.

    i dannati della terra

    Un studio condotto da Uila, l’Unione italiana dei lavoratori agroalimentari, punta l’attenzione sul “lavoro grigio”, difficile da osservare e misurare, ma altrettanto lesivo dei diritti dei lavoratori. I dati raccolti a proposito del Meridione evidenziano come i braccianti vengano impiegati in media per circa 101 giornate di lavoro in due anni. Non si tratta di un numero casuale, spiega a Repubblica Giorgio Carra, segretario nazionale di Uila, poiché quella soglia, una volta superata, consente ai dipendenti di ottenere sussidi e benefici previdenziali. L’altro lato della medaglia sono le condizioni abitative, sanitarie e igieniche in cui gli stagionali sono costretti a vivere e il fatto che un lavoratore su tre non raggiunge effettivamente le 51 giornate all’anno che gli garantiscono l’accesso alle prestazioni di assistenza.

    La risposta delle istituzioni

    Le arance raccolte in Calabria sono esportate in mezzo mondo: dal porto di Gioia Tauro arrivano in Russia, Germania, Romania, Repubblica Ceca, Polonia, Emirati Arabi. Molto di ciò che viene coltivato e raccolto qui finisce spremuto nei succhi di frutta: già nel 2012 un’inchiesta pubblicata sul The Ecologist puntava il dito contro Coca Cola, accusando il colosso statunitense di essere consapevole del fatto che gli agrumi impiegati nella produzione della Fanta fossero raccolti in condizioni di sfruttamento. Il contratto di fornitura è stato chiuso e l’azienda ha oggi, sul sito, una sezione dedicata alla policy che prevede: la libertà di associazione e di contrattazione dei dipendenti, il divieto assoluto di lavoro minorile e di ogni discriminazione, la conformità agli standard vigenti per gli orari di lavoro e la retribuzione e la necessità di un luogo di lavoro salutare e sicuro.

    fabbrica occupata

    La questione è, dunque, globale, tuttavia la risposta istituzionale si è concentrata, fino ad ora, sul territorio. La tendenza è quella di sovrapporre il problema dello sfruttamento e del caporalato con quello dell’immigrazione, visione che nasconde alcune insidie, come ha evidenziato in una nota del 5 febbraio scorso il sindaco di San Ferdinando, Andrea Tripoldi: “La presenza dei migranti non scende fatalisticamente dal cielo ma è funzionale alla sopravvivenza di un’agricoltura perennemente in crisi, aggredita dalla predazione mafiosa e caratterizzata dalla polverizzazione della proprietà. La comunità presente sul nostro territorio si caratterizza come una “comunità di destino” composta da persone che si cercano e si ritrovano per dare corpo, attraverso la lingua comune, le usanze e il cibo, alla propria identità, unico punto fermo nella loro condizione raminga. Tutto questo accade in una realtà deprivata, segnata da profonde lacerazioni sociali e ancora intrisa di antica cultura contadina, con tutta la sua nobiltà ma anche con i suoi demoni e i suoi pregiudizi.”

    Poco dopo, il 15 marzo, il sindaco metropolitano di Reggio Calabria, il prefetto commissario straordinario per l’area di San Ferdinando e il sindaco della cittadina della Piana hanno sottoscritto, in Prefettura, un nuovo protocollo operativo che coinvolge tutti e tre gli enti al fine di avviare progetti di inclusione dei cittadini immigrati che lavorano nella raccolta agrumizia, attraverso iniziative di integrazione sociale, mediazione culturale e accoglienza.

    Le stesse istituzioni già nel 2016 avevano sottoscritto il “Protocollo operativo in materia di accoglienza ed integrazione degli immigrati nella Piana di Gioia Tauro” con finalità simili, mentre la Regione Calabria aveva adottato, sempre nello stesso anno, la “Convenzione di cooperazione per il contrasto al caporalato e al lavoro sommerso e irregolare in agricoltura”, sottoscritta nell’ambito del Protocollo interministeriale “Cura – legalità – uscita dal ghetto”. L’auspicio era quello di costituire una rete tra le varie istituzioni del Mezzogiorno per realizzare un’azione condivisa e, di conseguenza, più efficace: uno sforzo che continua anche grazie al progetto mirato allo smantellamento dei ghetti, promosso da 5 Regioni del Sud alla Commissione Europea.

    Gli strumenti, dunque, sembrano esserci, almeno sulla carta, ma l’efficacia, almeno secondo quanto raccolto sul territorio da Medici per i diritti umani e dalle organizzazioni impegnate nell’assistenza, sembra ancora assente. “Tutti parlano di emergenza, – commenta amaramente il giornalista Antonello Mangano nel libro In Ghetto economy. Cibo sporco di sangue, – come se fosse un terremoto e non la raccolta dei mandarini.”

    Foto di Rocco Rorandelli per il report “I dannati della terra”

    Passaporto friulano e cuore bolognese, Angela vive a Udine dove lavora come giornalista freelance. Per Il Giornale del Cibo scrive di attualità, sociale e food innovation. Il suo piatto preferito sono i tortelloni burro, salvia e una sana spolverata di parmigiano: comfort food per eccellenza, ha imparato a fare la sfoglia per poterli mangiare e condividere ogni volta che ne sente il bisogno.

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