caporalato in europa

Rapporto GRETA, in Europa cresce lo sfruttamento dei lavoratori in agricoltura

Angela Caporale
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    Non solo Meridione e non solo caporalato, lo sfruttamento dei lavoratori è un affare che coinvolge, in forme e dimensioni differenti, tutti i paesi europei. Lo afferma il VII Rapporto del Gruppo di esperti del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani (GRETA), che traccia un quadro esaustivo e aggiornato delle leggi presenti sui diversi territori a tutela dei lavoratori, dell’effettivo rispetto dei loro diritti e, in generale, dello stato del caporalato in Europa. Che si trattasse di un fenomeno non solo Mediterraneo lo aveva già affermato anche il “Best Practices against Work Exploitation in Agriculture”, realizzato dal Milan Center for Food Law and Policy in collaborazione con Coop, presentato nel 2017 al Parlamento europeo di Bruxelles. Ciò che emerge è il fatto che forme di lavoro illecito e sommerso in agricoltura riguardano una percentuale media del 25% dei lavoratori europei, con maggiori concentrazioni nei paesi del Mediterraneo e dell’Est Europa.

    Si rileva una situazione particolarmente complessa in Romania e Portogallo, dove il 40% e il 60% dei lavoratori del settore agricolo sono irregolari, mentre i paesi più virtuosi sono Germania e Austria dove la percentuale non supera il 10%. In Italia, sempre secondo lo stesso rapporto, un lavoratore su tre è irregolare, una frazione che, nelle intenzione delle istituzioni, andrà a calare grazie alla legge contro il caporalato promulgata nell’autunno del 2017.

    Caporalato in Europa e sfruttamento dei lavoratori: cosa dice il rapporto del GRETA?

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    Con il fine di monitorare la tratta degli esseri umani con una prospettiva continentale è stato istituito il Gruppo di esperti del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani, chiamato semplicemente GRETA che, regolamente, produce dei rapporti densi di raccomandazioni per gli Stati.

    Il 7 maggio 2018 è stato pubblicato il VII rapporto generale che illustra, in una prospettiva europea, come la questione della tratta di esseri umani si intrecci in maniera inesorabile con lo sfruttamento lavorativo, suggerendo che sia necessario partire proprio da qui per affrontare il problema.

    Inoltre, in alcuni paesi come Belgio, Cipro, Georgia, Portogallo, Serbia e Regno Unito il numero di vittime di varie forme di sfruttamento lavorativo, soprattutto in ambito agricolo e marittimo, ha superato quelle di tratta a scopo sessuale. Gli esperti del Consiglio d’Europa, dunque, in primo luogo chiedono agli stati di attrezzarsi, in rete con la società civile e gli operatori del settore privato, di strumenti di tutela e monitoraggio della situazione affinché non si sviluppi quel fenomeno che viene definito “modern-day slavery”, una schiavitù contemporanea caratterizzata dall’assenza di tutele e forme di garanzia, di sicurezza, di salute e di salari adeguati.

    Una questione legale: le tutele in Europa

    Tra le criticità che rendono particolarmente complesso individuare quali sono gli elementi comuni a tutti i paesi europei, c’è la differenza di legislazione che fa sì che i lavoratori nei vari Stati rispondano a norme differenti. Tuttavia esiste una sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani che, secondo gli esperti del GRETA, può fornire un esempio a cui fare riferimento.

    Il caso è il “Chowdury e altri contro la Grecia”, risolto con una sentenza del 30 marzo 2017 che ha considerato il governo ellenico responsabile di una violazione dell’articolo 4 della Convenzione Europea dei diritti umani. In quel caso, la denuncia era partita da un gruppo di 42 Bangladesi che lavoravano in un’azienda di fragole a Manolada, nel sud del paese. Nessuno di loro aveva un permesso di lavoro, eppure erano impegnati 12 ore al giorno nei campi, dove erano controllati da guardie armate. Anche le condizioni di vita erano pessime: abitavano in baracche fatiscenti senza bagni o acqua corrente. Inoltre, per alcuni mesi non ricevettero nemmeno la paga promessa: il tutto sfociò in una protesta, il 17 aprile 2013, durante la quale una delle guardie reagì sparando e ferendo gravemente almeno 30 lavoratori.

    La situazione non era nuova per le autorità greche che, grazie a numerosi report e denunce, erano consapevoli delle condizioni di sfruttamento in cui si trovavano i lavoratori della zona di Manolada. Eppure non avevano fatto nulla, e proprio questo viene contestato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che ha condannato la Grecia per non essere stata capace di prevenire la tratta di esseri umani, di proteggere le vittime, di avviare indagini efficaci contro i “caporali”, e di punirli in maniera commisurata al crimine.

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    Difficoltà di definizione

    Se la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo parla chiaro, permangono nei vari paesi europei definizioni più o meno ampie di cosa sia sfruttamento e del modo in cui si lega alla tratta. In Germania, per esempio, nel Codice Penale si fa riferimento a tutte le condizioni che sono in chiara discrepanza con quelle dei lavoratori che sono coinvolti nelle stesse attività professionali; nella legge belga, invece, si include in concetto di “dignità umana”, come elemento che non può mai mancare nella regolazione dei rapporti professionali.

    In generale, gli esperti del Consiglio d’Europa chiedono a tutti i paesi di partire da un elemento comune: il riconoscimento della non responsabilità della vittima. Il consenso o meno al trattamento lavorativo di sfruttamento o alla tratta non dev’essere rilevante, poiché “le vittime possono accettare lo sfruttamento perché non hanno alternative per mantenersi o perché non lo percepiscono come lo sfruttamento che è”.

    Nondimeno, sempre il rapporto del GRETA sottolinea come sia molto difficile per chi si trova in una condizione di sfruttamento lavorativo, che sia nelle campagne dell’Europa Mediterranea oppure nei campi dell’Est Europa, denunciare il proprio datore di lavoro. Ciò accade per più motivi, ma tra i più rilevanti vi è sicuramente la paura di perdere anche quella minima forma di sostentamento per sé e per la propria famiglia.

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    Chi sono i “nuovi schiavi” in Europa?

    Secondo quanto emerge dalla lettura del Global Slavery Index, un indice curato dalla The Walk Free Foundation che monitora il numero di persone che vivono in condizioni di schiavitù nel mondo ogni anno, la maggior parte delle persone che vengono sfruttate ai fini lavorativi e sessuali proviene da Romania, Bulgaria, Lituania e Slovacchia. Tra i paesi extra-europei, invece, quelli più rappresentati sono Nigeria, Cina e Brasile. La maggioranza sono uomini, e sono coinvolti nel settore dell’agricoltura, dell’industria e della pesca.

    Si stima che, in totale, siano 1.243.400 le persone che si trovano in questa situazione, un numero che si teme possa crescere poiché, in accordo con quanto rilevato dall’IOM, i richiedenti asilo e i migranti che a partire dal 2015 hanno iniziato ad arrivare in tutti i paesi dell’UE hanno una maggior probabilità di finire nelle reti dello sfruttamento, del caporalato e della violenza.

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    Best practices: cosa viene fatto contro lo sfruttamento?

    Dati e leggi ci restituiscono una fotografia del fenomeno con sensibili differenze regionali, perciò è interessante evidenziare, come fa il rapporto degli esperti del Consiglio d’Europa, quali sono i paesi che si distinguono per affrontare il problema in maniera più efficace.

    Dal punto di vista della schiavitù moderna, le legislazioni più all’avanguardia sono quelle di Regno Unito, Svezia, Portogallo e Croazia: qui è dove è in atto il maggior numero di procedimenti giudiziari contro i perpetratori dello sfruttamento, esistono delle forme di supporto concreto alle vittime ed è chiaro lo sforzo per rompere il circolo vizioso dello sfruttamento e del lavoro nero in agricoltura e non soltanto.

    In Austria, invece, la legge prevede che vengano forniti dei servizi di base per tutti i lavoratori presenti sul territorio, compresi quelli senza permesso di soggiorno. Mentre in Bulgaria, il tentativo è quello di fornire ai cittadini delle informazioni chiare ed esaustive prima della migrazione, evitando così che il migrante sia esposto a situazioni di sfruttamento una volta che si trova all’estero. In Italia, infine, lo sforzo maggiore è quello di fare rete per rendere effettiva la legge: ecco allora che 5 regioni del Sud si sono unite contro il caporalato, proponendo un ampio progetto che prevede lo smantellamento dei ghetti, ma anche forme di accesso al lavoro più sicure e legali.

    Conoscevate i numeri dello sfruttamento lavorativo in Europa?

    Passaporto friulano e cuore bolognese, Angela vive a Udine dove lavora come giornalista freelance. Per Il Giornale del Cibo scrive di attualità, sociale e food innovation. Il suo piatto preferito sono i tortelloni burro, salvia e una sana spolverata di parmigiano: comfort food per eccellenza, ha imparato a fare la sfoglia per poterli mangiare e condividere ogni volta che ne sente il bisogno.

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