La tradizione del “quinto quarto” nella cucina ligure attraverso tre ricette

Giulia Ubaldi
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    Fabrizio De André ci ha dedicato una canzone, lo chef Davide Marzo invece ne ha fatto la sua filosofia in cucina. Stiamo parlando dell’utilizzo del quinto quarto, cioè delle frattaglie, nella cucina ligure, che spesso è messo in secondo piano rispetto ad altre preparazioni più note. Eppure, animelle, cervella, trippa e rognone sono una parte essenziale di molti piatti della regione, soprattutto di alcuni più dimenticati. “Credo sia dovere di un cuoco fare un lavoro di ricerca sulle radici della nostra cucina e riportare in auge alcuni piatti”. È questo quello che abbiamo fatto con Davide e grazie a Davide, in particolare con tre ricette: la cima, il bianco e il nero e i lattughini, ricordandovi una regola fondamentale, ossia che “i ripieni liguri devono sapere di persa, cioè di maggiorana”.

    L’utilizzo del quinto quarto nella cucina ligure, secondo lo chef Davide

    Davide nasce nel 1985 a Sestri Ponente da genitori genovesi. “Fin da piccolo ho sempre pascolato per le cucine, perché avevo vari parenti che lavoravano nella ristorazione, da mio zio che aveva un ristorante ad altri che gestivano una trattoria tipica”. Attratto da questo mondo, decide di fare il cuoco: studia all’alberghiero, lavora in osterie, locali, catering da Genova e Siena fino a Praga, finché nel 2012 non torna alle origini e approda al noto ristorante Il Genovese di Genova, in cui ha lavorato per otto anni. Dopo una breve esperienza in Portogallo, si trasferisce a Milano, dove continua la sua esperienza di cuoco appassionato.

    frattaglie liguria

    Foto di Davide Marzo

    “Anche se ormai oggi è diventata una moda, il mio interesse per il mondo del quinto quarto è iniziato molti anni fa. Un po’ perché sono i piatti con cui sono cresciuto, un po’ perché in un mondo che consuma così tanta carne credo che sia importante utilizzare tutte le parti dell’animale, in modo da evitare il più possibile e al massimo gli sprechi”. Di fronte alla “ritrosia” da parte di alcune persone verso questi piatti, Davide ci racconta che “in realtà, in passato le frattaglie erano considerate nobili. Poi si sono perse nel tempo insieme a chi sapeva prepararli e sono state sostituite con quella nuova cultura nata negli anni ‘80 che proponeva surrogati e surgelati, prodotti dalle industrie del cibo proprio perché più facili da preparare. Oggi l’idea generale è che la carne, quella buona, sia solo quella sotto forma di bistecche o costate, senza pensare che in questo modo si utilizza solamente una scarsa percentuale dell’animale macellato, sprecandone una grossa parte. Secondo le tradizioni popolari invece, macellare un animale era una festa. Si celebrava l’animale proprio perché si capiva l’importanza di quello che voleva dire uccidere una bestia per avere del cibo”. Quindi, secondo Davide utilizzare tutto il possibile dell’animale significa avere rispetto, anche quello che oggi, per molti di noi, è considerato disgustoso: il quinto quarto.

    Prima di parlarvi dei piatti della cucina ligure in cui è presente, è bene specificare che cosa si intende esattamente con questo termine. “Chiamato così perché l’animale viene diviso prima in mezzene, dalle quali poi si ricavano i cosiddetti quarti. Poi c’è la parte ‘in più’, quella delle interiora. Parti commestibili, ricche di nutrienti e talvolta povere di grasso, ma decisamente brutte da vedere. Sta poi al cuoco che le cucina trasformarle e farle diventare piatti deliziosi”. Infine, da un punto di vista storico, pare che l’utilizzo del quinto quarto nella cucina ligure derivi da un’influenza del vicino Piemonte: “infatti, ad esempio, in passato la cima si faceva solo uova, verdure e altri avanzi che si avevano a casa, poi hanno iniziato a metterci anche cervella e animelle”. Dunque, iniziamo proprio da questo piatto, che ha una preparazione magnifica, a cui anche De André ha dedicato una canzone, “A Cimma”.

    Cima alla genovese, cimma pinn-a

    Nato come piatto povero, oggi è la portata per eccellenza delle feste in Liguria, soprattutto nell’entroterra, quello che non manca mai a Natale e che si fa nella versione di magro per Pasqua. Questo perché si tratta di una preparazione molto lunga e complessa, come canta De André, che ormai si prepara quasi sempre e solo nelle case. Proprio per questo, come tutti i piatti casalinghi, Davide ci racconta che ne esistono numerose varianti, “a Sanremo, ad esempio, la cima la fanno fritta! Io invece ho provato a farla con il coniglio”. Di base si tratta di un pezzo di carne, di solito la pancia di vitellone, che viene tagliato a forma di tasca, farcito con vari ingredienti e infine cotto dopo essere stato cucito, in modo che non esca il ripieno. Eppure, a dispetto del senso comune, è molto più leggero di quel che si potrebbe pensare!

    cima genovese

    Foto di Davide Marzo

    Ingredienti 

    • 1 kg pancia di vitellone
    • 150 g vitellone macinato
    • 150 g cervella
    • 150 g animelle
    • 100 g piselli
    • 100 g carote a cubetti
    • 50 g pinoli
    • 50 g burro
    • q.b. di maggiorana
    • 8 uova
    • 100 g parmigiano
    • 2 litri di brodo di carne
    • 1 bicchiere piccolo di brandy o vino bianco

    Procedimento 

    1. Preparate la pancia di vitellone cucendo il bordo in modo da formare una tasca lasciando il lato più corto aperto (il macellaio può farlo per voi).
    2. Mettete il brodo in una pentola capiente. Dovrà contenere, oltre il brodo, anche la cima ripiena.
    3. Fate sciogliere in una padella il burro: quando sarà color nocciola aggiungete la carne, le cervella e le animelle. Fate cuocere per bene fino a farla diventare rosolata ma non bruciata. Questo passaggio è molto importante in quanto andrà a dar gusto al ripieno.
    4. Sfumate con un bicchiere di brandy o vino bianco secco. Una volta evaporato l’alcol fate raffreddare. Trasferite il ripieno in un frullatore. Quando la carne sarà ben frullata, mettete il composto in una bowl e aggiungete le uova, il sale, la maggiorana, il parmigiano e piselli e carote già sbollentati.
    5. Riempite la tasca con il ripieno: se usate una sac à poche sarà più semplice.
    6. Chiudete con lo spago rimasto l’imbocco cima e mettetela nella pentola con il brodo tiepido.
    7. La cottura sarà la parte più delicata: cuocete a fuoco lento per un’ora e mezza almeno, senza mai far bollire il brodo.

    Infine prendete la cima molto delicatamente e, da calda, mettetela tra due teglie con un peso sopra fino a quando si sarà raffreddata, poi servitela ascoltando rigorosamente la canzone che ci ha dedicato Fabrizio De André.

    Il bianco e il nero, il gianco e neigro

    Molto meno conosciuto della cima alla genovese, il bianco e il nero si differenzia anche perché estremamente facile e veloce da preparare, sempre espresso. Deve il nome ai suoi colori: “al rognone e al cuore, che sono più scuri, e al polmone che invece è più chiaro”. Si tratta di un piatto molto povero che è rimasto povero, nato quando in passato si vendevano le bestie e si tenevano per sé le parti meno pregiate come le interiora. “Io da piccolo lo mangiavo sempre!”, dice Davide. Per prepararlo, ci spiega, sono fondamentali alcuni accorgimenti: in primis, è bene utilizzare parti come cuore, polmoni, fegato, rognone e milza, meglio se di un animale giovane come l’agnello da latte. In secondo luogo i tagli della carne devono essere molto sottili. Poi, è fondamentale la presenza dell’Aglio di Vessalico per il suo profumo unico, di cui vi avevamo già parlato a proposito delle varietà di aglio da scoprire in Italia. Infine, Davide consiglia di avere i seguenti attrezzi: una pentola capiente, padella (ideale in alluminio, non antiaderente), un frullatore, delle bowl, due teglie, un coltello e un cucchiaio di legno. “E attenzione, questo piatto ha una cottura molto veloce e a fiamma alta!”

    Ingredienti 

    • 600 g interiora di agnello da latte (cuore, fegato, milza, polmone e rognone)
    • 50 g burro
    • 1 spicchio aglio di Vessalico
    • 1 cucchiaino di farina
    • q.b. di prezzemolo fresco
    • 1 bicchierino di brandy o vino bianco
    • q.b. di rosmarino

    Procedimento 

    1. Tagliate molto finemente le frattaglie.
    2. Fate sciogliere il burro in una padella, alzate la fiamma e quando sarà color nocciola aggiungete le frattaglie tagliate.
    3. Muovetele col cucchiaio in modo da farle rosolare bene.
    4. Aggiungete la farina e fate tostare bene il tutto.
    5. Aggiungete l’aglio di Vessalico intero leggermente schiacciato e una foglia di alloro.
    6. A questo punto sfumate con brandy o vino bianco.
    7. Cuocete per un minuto col coperchio e il piatto è pronto

    Lattughini ripieni, leitúghe pinn-è

    I lattughini ripieni sono uno di quei piatti della cucina bianca, di cui vi abbiamo a lungo parlato. I suoi ingredienti, infatti, sono i classici dell’entroterra ligure: formaggio, lattuga, burro, uova, parmigiano e verdure. Molto diffuso soprattutto a Ponente, è un altro di quei piatti dalla lunga preparazione, per questo riservato a feste e ricorrenze speciali, in particolare tra autunno e inverno. Anche in questo caso, si tratta di un piatto casalingo, difficile da trovare nei locali, anche se Davide lo preparava alla Trattoria Genovese dove lavorava. Qui, una volta un signore gli ha raccontato che “quando lo mangiava lui, ai tempi, era il piatto da servizio buono per qualche occasione speciale, nobile ed elegante per la tavola ligure, per niente e mai ritenuto povero”. Viene servito in brodo e per la sua preparazione Davide consiglia di munirsi dei seguenti utensili: padella, bowl, due pentole, ragno o schiumarola, 2 bowl, spago da cucina, mestolo, ragno o schiumarola.

    Ingredienti 

    • 1 lattuga grande
    • 200 g vitellone macinato
    • 1 cervella
    • 70 g animelle
    • 50 g burro
    • 1/2 mazzetto maggiorana
    • 1 o 2 uova
    • 70 g parmigiano
    • q.b. di noce moscata
    • 1 litro di brodo di carne

    Procedimento 

    1. In una pentola mettete il brodo a fiamma bassa, nell’altra fate bollire dell’acqua; in una delle due bowl mettete invece dell’acqua fredda.
    2. Sfogliate la lattuga in modo da ricavare delle foglie intere senza rovinarle.
    3. Fatele sbollentare per un minuto nell’acqua salata, dopodiché trasferite con il ragno o la schiumarola molto delicatamente nella bowl con l’acqua fredda, in questo modo le foglie rimarranno verdi e croccanti.
    4. Fate rosolare per bene la carne e le frattaglie in una padella con il burro e sfumate con del vino bianco.
    5. Trasferite poi il tutto in un altra bowl e aggiungete le uova, il sale, la maggiorana e il parmigiano.
    6. Scolate le foglie di lattuga, mettetele ben distese su un canovaccio per farle asciugare il più possibile.
    7. Con un cucchiaio raccogliete una grossa noce di ripieno e mettetela al centro della foglia.
    8. Chiudete la foglia intorno al ripieno come fosse un pacchettino.
    9. Ripetete questa operazione con tutte le altre foglie.
    10. Una volta finito il ripieno, prendete le spago da cucina e legate le lattughe in modo che non si aprano durante la cottura.
    11. Mettetele nella pentola con il brodo e fate sobbollire per 3 minuti.
    12. Scolatela con un ragno o schiumarola e trasferite nel piatto di portata. Completate il piatto con una generosa mestolata di brodo.

    Ma Davide è uno a cui piace anche sperimentare, per questo ne ha creato anche una versione un po’ più “fusion-orientale” con carne di maiale e zenzero, sempre cotti al vapore e poi immersi in brodo di oca e anatra.

    E voi, avete voglia di sperimentare qualcuno di questi piatti, magari dando il vostro tocco personale o declinato agli ingredienti presenti in questa stagione o nella vostra regione?

    Antropologa del cibo, è nata a Milano, dove vive e scrive per varie testate, tra cui La Cucina Italiana, Scatti di Gusto, Vanity Fair e le Guide Espresso. Il suo piatto preferito sono gli spaghetti alle vongole, perché per lei sono diventati un'idea platonica: "qualsiasi loro manifestazione nella realtà sarà sempre una pallida copia di quella nell'iperuranio". Nella sua cucina non mancano mai pistilli di zafferano, che prima coltivava!"

    2 risposte a “La tradizione del “quinto quarto” nella cucina ligure attraverso tre ricette”

    1. Silvana Masnata ha detto:

      Articolo molto interessante, le ricette rispettano totalmente la tradizione ligure che si tramanda di generazione in generazione.È molto confortante che sia un giovane chef come Davide Marzo a portare avanti questa scuola di piatti tradizionali, significa che un patrimonio culturale come la cucina ligure continua a vivere e a tramandarsi nel tempo!
      Complimenti e auguri a Davide Marzo.

    2. Beppe ha detto:

      Bravi, i richiami all’uso di questi tagli particolari sono sempre utili e appropriati. L’uso del quinto quarto non è solo diffuso in tutte le cucine regionali italiane ma è comune a tutte le culture gastronomiche, forse semplicemente perchè tanta gente nella storia umana si poteva permettere solo quello e credo di non azzardare aggiungendo che forse se si creasse un libro dedicato esclusivamente alle ricette dedicate al quinto quarto in genere, sarebbe il più corposo di tutta la storia delle pubblicazioni gastronomiche.

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