uccisione del maiale in cilento

La tradizione del maiale in Cilento

Giulia Ubaldi

Altro che Natale, dicembre è il mese del maiale! E anche se gran parte della popolazione storce il naso di fronte alla sua uccisione, non si fa poi troppi problemi quando si trova davanti taglieri imbanditi di salumi o panini con salsiccia. Non dimentichiamo infatti che in Italia, fino agli anni Cinquanta, quasi tutte le famiglie avevano e allevavano almeno un maiale: lo dimostra il fatto che in ogni regione si è mantenuto e tramandato nel tempo un particolare salume, con una precisa lavorazione e un’antica lavorazione alle spalle.
E anche se nel tempo si sono diffuse grandi industrie di produzione norcina, non esiste macchina capace di fare i salumi come chi cresce il maiale tutto l’anno, sapendo come ha vissuto e che cosa ha mangiato ogni giorno della sua vita. Solo la sensibilità esercitata della sua mano, infatti, potrà dare la giusta tensione allo spago, distribuire in modo equilibrato parti magre e grasse e capire con uno sguardo la perfetta stagionatura. Ancora oggi, da nord a sud, ci sono aree rurali dove avviene la macellazione del maiale in casa, anche se per legge mai più di due; ma oggi ci soffermeremo sulla tradizione dell’uccisione del maiale in Cilento.

Uccisione del maiale in Cilento: un antico rito

cilento panorama

Vi basti sapere che in Cilento si dice che chi nun teni n’uorto e nu puorcu, inda n’annu è muortu, cioè chi non ha un orto e un porco alla fine dell’anno è morto. Infatti qui è ancora molto viva la tradizione del maiale: quasi ogni famiglia ne alleva almeno uno, quasi a costo zero, con la cosiddetta jotta, un insieme di avanzi di cibo. Il momento della sua uccisione viene talmente considerato un giorno di festa, che è persino giustificata anche la mancata presenza sul lavoro. Il rito del porco prevede principalmente tre fasi, che in dialetto cilentano si riassumono così: l’acciri, lo sfassi e poi inghi, ovvero lo uccidi, lo sfasci e poi riempi i salami, anche se questo rituale può variare da una famiglia all’altra. Ovunque però, l’importante è che la luna sia zica, piccola.

Primo giorno

allevamento maiali

Secondo la tradizione, il primo giorno si inizia la mattina molto presto con l’accensione del fuoco, sul quale viene messa una caurara, ovvero un fusto di ferro con dell’acqua all’interno da riscaldare, che poi servirà per disinfettare e pelare il maiale. Appena l’acqua raggiunge il grado d’ebollizione, viene legato il maiale all’interno della stalla e portato nel luogo di macellazione.

In passato veniva scannato vivo, ma per fortuna negli ultimi anni viene utilizzato lo stordimento a pistola per far soffrire meno l’animale. Nel momento in cui muore, viene raccolto il sangue, che poi verrà bollito; con l’aggiunta di vari aromi quali fichi secchi, cannella, zucchero, cacao, uva passa e chiodi di garofano si può ottenere il sanguinaccio, la base della pinna, ovvero la crostata che tanto fece scalpore in Benvenuti al Sud. Per assaggiarla potete solo diventare amici di un cilentano o farvi invitare a pranzo da qualche famiglia (non è difficile), visto che come sapete nelle macellerie è vietata la vendita del sangue di maiale.

Tornando al rito, in seguito inizia la pelatura: in questa fase si pinnica il maiale per poi togliere la testa dal corpo e dividerlo in due mezzene.  A queste vengono estratte le interiora, che sono abbastanza pulite poiché il giorno prima l’animale viene tenuto a digiuno. L’usanza vuole che il gravoso compito di pulire gli stintini spetti sempre alle donne, ovvero quello di spremere e rigirare l’intestino del maiale, per poi trattarlo con materiali acidi come sale, limoni e aranci per renderli idonei per i salami.

Infine, vengono estratti tutti gli organi vitali, fegato, polmoni e cuore per essere appesi ai rami di un albero in modo che sgoccioli tutto il sangue. E ora si è pronti per il pranzo, dove tradizionalmente si mangia tutti insieme la scannatura, ovvero la carne vicino alla testa, con pomodoro per la pasta.

Secondo giorno

Oi acciri, crai stai e piscrai sfassi, dicono i cilentani per indicare il fatto che durante il secondo giorno è meglio che le mezzene riposino fino al dì successivo. Ma ormai non è sempre così, i tempi moderni costringono spesso a concentrare la lavorazione e quindi a procedere subito con l’ultima fase, in passato prevista per il terzo giorno.

Terzo giorno

All’alba del terzo giorno inizia la lavorazione del maiale, ovvero la fase della sfassatura, in cui vengono estratte pancette, capicolli e prosciuttelle. La carne viene divisa in due parti: le parti più magre per le soppressate, quelle più grasse per le salsicce. Tra queste quelle con più sangue vengono utilizzate per l’annuglia, una salsiccia di seconda scelta a cui vengono aggiunte parti del fegato e del polmone bolliti insieme a vari aromi, da consumare principalmente con brodi e minestre.

E poi si può iniziare con i salami, riempiendo le interiora ora pulite con la carne opportunamente selezionata. In passato si facevano a mano, premendo con le dita nel mutu, ovvero un imbuto, tanto che ci voleva quasi una settimana per terminare tutto il procedimento; oggi invece si usa l’insaccatrice. Infine, una volta pronte, salsicce e soppressate vengono appese sulle pertiche nelle proprie abitazioni o negli stieri, i piccoli magazzini dove si tengono le provviste. Qui, stagionano e essicano fino al momento del loro consumo, che avviene in modo tutt’altro che casuale.

Il calendario di consumo

salumi italiani

Secondo la tradizione cilentana, il consumo del maiale deve avvenire secondo un preciso schema, anche se ormai non è più così seguito. Ecco l’antico calendario che era previsto in Cilento:

A gennaio il sanguinaccio

A febbraio la salsiccia

A marzo la pancetta

Ad aprile la cotica

A maggio la soppressata

A giugno il capicollo

A luglio prosciutto

Da luglio in poi si può mangiare tutto.

Dove trovare u sausicchio cilentano

Per assaggiare u sausicchio del Cilento, potete provare a invitare a cena un cilentano: molto probabilmente ve ne porterà in dono uno fatto in casa, se non dalla sua famiglia, da quella del vicino di fiducia. In alternativa, girate tra le case nei paesi e di certo vedrete che qualcuno vi inviterà a provare questo prodotto con orgoglio. Altrimenti, se siete così sfortunati da non aver mai incontrato il Cilento o un cilentano sul vostro cammino, rivolgetevi a grandi aziende come Cellito di Morigerati, tra le più conosciute, oppure alla Fattoria Biococò di Massicelle di Montano Antilia, che alleva suini allo stato semibrado; o ancora a Enzo Carni di Camerota, Marco Tambasco di Futani, Umberto Luongo di Vallo della Lucania, Michele Esposito e Laura Sini di Terra Mancina, tra le aziende più piccole da provare assolutamente a Caselle in Pittari, in Cilento il paese per eccellenza del maiale.

Infine, se tra di voi ci dovesse essere qualcuno che ha storto il naso a sentir parlare dell’uccisione del maiale in Cilento, non dimenticate che quella cilentana è anche terra di mare e di pescatori, quindi come alternativa vi ricordiamo dove mangiare pesce in Cilento.

Antropologa del cibo, vive tra Parigi e Milano, dove è nata e dove ha fondato il Laboratorio di Antropologia del Cibo. Scrive per varie testate e il suo piatto preferito sono gli spaghetti alle vongole, perché per lei sono diventati un'idea platonica: "qualsiasi loro manifestazione nella realtà sarà sempre una pallida copia di quella nell'iperuranio". Nella sua cucina non mancano mai pistilli di zafferano, che prima coltivava!

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