Lasciati conquistare dai sapori dell’Abruzzo

Adriana Angelieri

di Martino Ragusa.La bellezza vuol dire tante cose. In Abruzzo significa forza, antico, tradizione. Siamo in una terra dalla naturalezza spudorata, capace di ostentare la sua fisionomia arcaica con lo stesso orgoglio col quale un vecchio saggio va fiero delle sue rughe solenni, ed è bene saperlo subito. L’Abruzzo non si discute: o lo si evita o ci si abbandona al suo vigore testardo, capace di imporsi, non di proporsi. L’Abruzzo è quello che è, prendere o lasciare. Anzi, lasciare o lasciarsi prendere, perché, se parte la festa, l’ospitalità degli abruzzesi diventa la gioiosa tortura della panarda, un banchetto di molte portate che se la ride a crepapelle del  mito metropolitano della taglia quarantotto. Chi sceglie la gastronomia abruzzese, decida anzitutto quale delle due sue facce visitare: la marina o la montana. Attenzione, perché la divisione è non fittizia, con i due volti che puntano direzioni opposte e, come le facce di Giano, non si guardano mai fra loro. Ognuna è troppo gelosa, troppo orgogliosa per mescolarsi con l’altra. Ognuna ti vuole come amante esclusivo e ti seduce, ma sempre col vigore. Insomma, non è un posto per palati sdolcinati. Qui non fanno il maquillage a niente e a nessuno. Non alterano le tradizioni, non si sognano di correggere le inflessioni dialettali della parlata e tantomeno di rinunciare alla loro cucina.Sull’Appennino, su quel Gran Sasso che mette soggezione solo a nominarlo, si ripropongono i rustici fasti delle regge dell’antica Grecia con l’agnello a cutturo. L’agnello spezzato è cotto nell’olio di oliva dentro a un paiolo di rame con salvia e rosmarino. Dalla scoperta dell’America è aromatizzato anche (e molto) con il peperoncino. Chissà, peperoncini a parte, quanti se ne saranno sbafati di agnelli simili i Proci quando se la spassavano a Itaca alla faccia di Ulisse. Anzi, probabilmente lo mangiavano con le stesse modalità con cui ancora oggi è tradizione gustarlo in Abruzzo: senza posate, steso su fette di pane intriso del suo sugo. E poi ci sono i maccheroni alla chitarra conditi col sugo di agnello e ci sono le virtù,una minestra fatta con sette tipi di verdura,sette tipi di carne, sette aromi e sette qualità di pasta. C’è l’agnello cacio e uova, le mazzarelle (involtini di interiora di agnello) il ciffe ciaffe,la ‘ndocca ‘ndocca e le scrippelle ‘mbusse, nomi che sembrano parole di canzoni popolari e gusti che sembrano la materializzazione miracolosa dei versi della “Figlia di Jorio” di D’Annunzio.Lasciando la montagna, si abbandona l’odore prepotente della maggiorana, il pizzicore tormentoso e invadente del peperoncino e la fragranza dello zafferano dell’Aquila. Al mare la cucina si ingentilisce con i brodetti di pesce, con i polpi in purgatorio e lo scapece di Vasto. Una cucina meno prepotente e più familiare, più simile a qualcosa di noto. Ma i posti di mare, si sa, sono per loro natura portati allo scambio, che reca sempre il vantaggio dell’arricchimento e lo svantaggio dell’omologazione. Per questo è più facile lasciare il cuore nel cuore dell’Abruzzo: sulla montagna, dove la gastronomia è uguale solo a se stessa, dove per fare un paragone devi scomodare arcaiche tradizioni pastorali e tragedie dannunziane, dove nacquero Luigi Turco, che diventò cuoco alla Casa Bianca e tanti altri grandi chef che hanno deliziato il mondo intero, come quel Palumbo che, si che si favoleggia, riuscì a farsi spalancare le porte del palazzo imperiale del Giappone. Dove si ha il coraggio di mangiare e offrire lo spietato Marcetto, pezzetti di pecorino fermentato nel latte fino alla quasi putrefazione e conservato sott’olio. Naturalmente si spalma sul pane, come avrebbero fatto i re pastori Greci.La foto del Gran sasso è dell’utente flickr pizzodisevo

Siciliana trasferita a Bologna per i tortellini e per il lavoro. Per Il Giornale del Cibo revisiona e crea contenuti. Il suo piatto preferito può essere un qualunque risotto, purché sia fatto bene! In cucina non devono mancare: basilico e olio buono.

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