Fava
di Giuseppe Biscari (Peppe57).
Le fave, appartenenti alla famiglia delle Leguminose e classificate con il nome «Vicia Faba», crescono su piante erbacee annuali dal busto eretto che producono fiori bianchi da cui si sviluppano i baccelli (che possono raggiungere la lunghezza di 30 cm) che contengono i semi verdi. Si conoscono diverse varietà di fava. La vicia faba equina o fava cavallina viene coltivata come pianta foraggiera, come anche la vicia faba minor o favetta. La più nota è, invece, la vicia faba maior cioè la pianta da orto con baccelli grossi e lunghi e con semi grandi e appiattiti. Quest’ultima è quella che viene destinata all’alimentazione umana.
I semi contenuti nei baccelli della pianta, hanno una forma oblunga e leggermente schiacciata, di colore verde o violaceo, a seconda della varietà; hanno ottime proprietà nutrizionali come un elevato contenuto di proteine, carboidrati, vitamine (A, B, C, K, E, PP), sali minerali (importanti per la loro azione di drenaggio) e fibre presenti soprattutto nella loro buccia esterna. Tra i legumi risultano essere le meno caloriche, ma attenzione: se per 100 grammi di fave fresche l’apporto energetico è di sole 37 calorie, per lo stesso peso di fave secche l’apporto sale a 342 calorie. Le fave secche, però, sono – escludendo la soia – i legumi che forniscono in assoluto il maggior apporto di proteine.
Se si pensa che le fave erano già note nel 3000 a.C. e che sono state largamente consumate per millenni nell’area mediterranea (e quindi molto prima della diffusione del fagiolo – proveniente dall’America – nel XVI secolo), possiamo dire che le fave sono da secoli un alimento basilare della cucina mediterranea. E ciò anche se, pare, che presso i greci, le fave non godessero di ottima fama perché ad esse era legata la superstizione che dentro i semi si nascondessero le anime dei defunti. Questi pregiudizi ben si spiegano tenendo conto della consuetudine, tipicamente greca, di usare le fave nei riti religiosi come cibo per i defunti. Nell’antica Grecia, inoltre, si riteneva che Cerere avesse donato alle città dell’Arcadia i semi di tutti i legumi tranne quelli delle fave, cui erano legate varie superstizioni.
Ma anche nell’antica Roma le fave avevano una duplice funzione. Durante le feste dedicate alla dea Flora, protettrice della natura che germoglia, ci si poteva ritrovare sommersi da una vera e propria una cascata di fave: i romani infatti, le gettavano sulla folla in segno di buon augurio. Ma a festeggiamenti conclusi questo legume tornava ad essere ritenuto impuro: il sacerdote di Giove non poteva toccarle, mentre al Pontefice Massimo era addirittura vietato nominarle.
Maggetto a fave e pecorino
Le fave tuttavia, non erano solo cibo per i defunti. Sempre nell’antica Roma le ricette di Apicio a base di fave erano tenute in grande considerazione. Ciò è tanto più vero se si pensa che la classica merenda primaverile di quelle zone le vede accompagnate da pecorino e pane nero: menu questo, a base di pecorino e fave, che fa parte della tradizione agroalimentare del Lazio e risale, appunto, al tempo della Roma antica quando delle fave si mangiavano anche i baccelli.
A tal proposito un appuntamento che gli abitanti dell’area tiberina, e di tutto l’agro romano in genere, non perderebbero per nessuna ragione al mondo (tranne che l’imperversare del maltempo) è il cosiddetto «Maggetto» cioè la scampagnata del 1° Maggio che viene festeggiata con la tradizionale gita fuori porta, durante la quale oltre a godere delle bellezze della natura, godono anche e soprattutto delle delizie che un pasto molto semplice può dare al palato: pane, fave e pecorino.
È questa la tradizionale base gastronomica del picnic del 1° maggio. Non c’è bisogno infatti di cucinare elaborate pietanze da consumare sull’erba, basta procurarsi dell’autentico pecorino romano con la goccia (o lacrima che dir si voglia) e delle ottime fave fresche, aggiungere un buon fiasco di vino rosso, possibilmente dei Castelli Romani, e mescolare con tanta allegria: e… il pranzo è servito! Tuttavia, se non si dovesse avere a disposizione il pecorino romano, andranno bene anche altri formaggi stagionati. L’importante è la convivialità ed una bella giornata di sole. Fave e pecorino sono da sempre insostituibile componente delle gite fuori porta sia di Pasquetta, sia del 1° maggio. Basti pensare che – secondo una stima della Coldiretti – gli abitanti di Roma e dintorni che ogni anno scelgono questo gustoso menu per la loro scampagnata fuori città sono circa due milioni.
Produzione e caratteristiche nutrizionali
Quanto alla produzione di fave, nel nostro Paese vengono prodotti annualmente 54 milioni di quintali di fave fresche su una superficie di quasi 9.500 ettari localizzata soprattutto nel Mezzogiorno e nelle Isole, mentre in una percentuale più piccola in aree ben delimitate del centro Italia. La fava è molto coltivata in Sardegna dove viene utilizzata per numerosi piatti tipici tra i quali basti ricordare la «faddada», un minestrone di fave, cavoli e finocchietto selvatico. A Sassari per antica consuetudine viene preparato in occasione del carnevale. Ad Aquino, in Ciociaria, il 2 novembre si svolge addirittura una manifestazione dedicata alle fave, chiamata «Le fave dei Pelagalli»: è un’antica tradizione popolare nata in seguito ad un atto di generosità da parte della famiglia dei Pelagalli che donarono questo legume in gran quantità ai poveri del paese. Una tradizione in uso anche a Oristano dove per S. Giuseppe le famiglie più abbienti erano solite offrire le fave alle famiglie più povere.
Quando la si compra bisogna accertarsi che il baccello sia turgido, di colore brillante e senza macchie, lucido e di forma regolare. Ad autenticarne la qualità e, in particolar modo, la freschezza, è lo schiocco che deve fare il baccello quando lo si spezza. Le fave sono indicate per minestre e passati, ma possono anche essere consumate crude con olio e parmigiano fresco, in insalate o con formaggi e salumi. Si possono essiccare o congelare. Prima di metterle nel freezer, però, conviene sbollentarle per tre minuti circa e lasciarle raffreddare.
Proprio per l’elevato contenuto di fibre da sempre in cucina si è sempre posto un quesito:mondare o no le fave? A rigor di termini non avrebbe molto senso decorticarle privandole della buccia esterna. Molti lo fanno, perché talvolta, effettivamente, la buccia risulta un po’ dura, mentre altre volte è proprio la ricetta a richiederlo esplicitamente. Però, così facendo si perdono il 50% del peso e dei nutrienti, soprattutto la fibra.
In ogni caso, l’eliminazione della buccia si può compiere prima o dopo la lessatura, praticando un taglio sul lato dell’occhio e schiacciando per fare fuoriuscire il seme vero e proprio.
Le fave secche si trovano sia con la buccia che decorticate. Nel primo caso hanno bisogno di un ammollo di 16-18 ore in acqua tiepida prima della cottura, mentre, se decorticate, necessitano di un ammollo in acqua fredda di circa 8 ore. In entrambi i casi, bisogna tenere presente che, stando a bagno, questi legumi raddoppiano di peso. Quanto ai tempi di cottura, bisogna calcolare 30 minuti in acqua bollente, che si riducono a 6-8 con la pentola a pressione. Tra le tante varietà di fave presenti nel territorio italiano, le migliori d’Italia sono le fave di Carpino in Puglia e le fave larghe di Leonforte in Sicilia, entrambe le varietà presidi Slow Food..
La fava di Carpino
La fava di Carpino è una varietà autoctona pugliese. È proprio nel territorio del Comune di Carpino che la coltivazione di questo legume trova le condizioni ideali. I metodi culturali, il microclima e le caratteristiche chimico-fisiche del terreno argilloso e calcareo della piana di Carpino, conferiscono a queste fave caratteristiche assolutamente inconfondibili. La fava di Carpino, infatti, presenta una buccia sottile, molto friabile, con polpa dal gusto ed aroma intenso, con un elevato contenuto di sali minerali, antiossidanti, in particolare dopamina, sostanza che svolge un ruolo importantissimo sul sistema nervoso e nella terapia del morbo di Parkinson.
La coltivazione di questa fava – come vedremo – presenta forti analogie con quella posta in essere in Sicilia per la fava larga di Leonforte. La fava di Carpino, infatti, si produce in rotazione con il grano duro, le barbabietole da zucchero, i pomodori e i lupini. La semina avviene nei mesi di ottobre e novembre e le piante non necessitano di concimazioni in quanto la stessa pianta di fava arricchisce il terreno di azoto. Nel mese di giugno, quando le piante sono ingiallite, vengono falciate a mano e legate in covoni detti «manocchi» che si lasciano seccare sui campi. Nel mese di luglio quando i manocchi sono ben secchi, si sistemano sulle «arij» (aie di forma circolare). Qui, quando il sole è alto, si passa alla fase della «pesa»: un contadino sta al centro dell’aia, mentre uno o più cavalli girano in tondo schiacciando i covoni. Quindi, con tradizionali forche di legno, si separano le fave dalla paglia.
La fava di Carpino presenta dimensioni medio-piccole, con una fossetta nella parte inferiore. È verde al momento della raccolta per diventare, seccando, di colore bianco sabbia.
Tenera e saporita, viene tradizionalmente cotta nelle pignatte di terracotta sul fuoco dolce del camino. Si mangia come contorno – condita semplicemente con un filo d’olio extravergine di oliva – oppure come primo piatto cotta con erbe spontanee, con la zuccaoppure con la carne di maiale.
La tradizione abbina questi semplici piatti al Rosato di Castel del Monte, la cui corposità ed acidità ben si sposano contrastandole con le note dolci della fava. Gli appezzamenti destinati alla coltivazione delle fave di Carpino sono perlopiù molto piccoli (in media mezzo ettaro) la produzione è quantitativamente modesta e purtroppo, a fronte di un’elaborata tecnica colturale, non adeguatamente remunerata sicché si è pensato di tutelare la fava di Carpino dall’estinzione dichiarandola presidio Slow Food.
La fava larga di Leonforte
Rinomata tanto quanto quella di Carpino è la fava Larga di Leonforte. Conosciute da sempre, le fave Larghe di Leonforte (coltivate principalmente in Provincia di Enna nei Comuni di Leonforte, Assoro, Nissoria, Enna, Calascibetta) sono oggi diffusissime un po’ in tutte le nove provincie dell’Isola. Sono state e tuttora restano un ingrediente cardine dell’intera cucina siciliana. Si coltivavano in rotazione con il frumento per arricchire il terreno di azoto, e la loro coltivazione è ancora oggi completamente manuale. Tra novembre e dicembre si preparano i solchi, si depongono i semi a postarella (cioè a gruppi) e si ricoprono di terra. Poi si zappetta per togliere l’immancabile erba infestante e si «accuccia» la terra (si aggiunge cioè terreno attorno alle piantine).
Quando le piante incominciano ad avvizzire si falciano, si fanno essiccare in piccoli covoni («manate ri favi») che poi vengono battutti nell’aia (una volta si calpestavano con gli animali) per separare la furba (i resti di foglie e fusti: la cosiddetta paglia di fave) dal seme.
Dopo la battitura si passa alla cernita delle fave: quelle più piccole saranno date in pasto agli animali (mucche e maiali), mentre quelle più grandi saranno destinate al consumo familiare o vendute ai commercianti. Purtroppo però ,il prezzo delle fave non è mai abbastanza remunerativo per una coltivazione così laboriosa, con la conseguenza che ogni anno i campi di fave si riducono.
Anche per la Larga di Leonforte, al fine di scongiurare l’estinzione di questa preziosa varietà di fave è nato un presidio Slow Food.
Le fave Larghe di Leonforte sono buone e cucivuli (ossia cottoie: il termine dialettale indica appunto la caratteristica di queste fave che cuociono facilmente e non vanno tenute a lungo in ammollo come gli altri legumi). A fine marzo ci sono quelle verdi, appena raccolte, che in Sicilia si chiamano Fajane o Faviane. Se raccolte in questo periodo, i baccelli devono esser lucidi e di un bel verde brillante, sodi e croccanti alla rottura. Durante il resto dell’anno le fave si trovano in commercio sotto forma di legume secco.
Le fave in cucina
L’utilizzo in cucina delle fave verdi (altrove dette favette) è il più svariato: dal semplice consumo accompagnate con le cipollette tenere ed il pecorino o il caciocavallo stagionati, alle cosiddette «fajane a frittedda» stufate in olio extravergine con pancetta e cipolle e cotte a fuoco lento. O stufate con cipolla prezzemolo e foglie di lattuga da mangiare con la ricotta o come contorno ad una bella frittata; o così cotte, ma senza la lattuga, come ripieno esse stesse della frittata.
Altrettanto vario è l’utilizzo in cucina delle fave secche. A cominciare dalle famosissime favi a sali minutu (semplicemente lesse, scolate e condite con olio, aceto, peperoncino ed erbe aromatiche secondo il personalissimo gusto di ognuno). Altrettanto famosa è la zuppa di fave che richiede una cottura lenta fin quasi a far disfare il legume a cui si aggiungono varie verdure (ma anche le cotiche del maiale) e che viene consumata come piatto unico con il pane casareccio. Ma da questa elencazione non può certo mancare la «frascatula» (una sorta polenta con finocchietti selvatici e farina di fave abbrustolite e ceci). Ed infine, il «macco» nelle sue molteplici preparazioni.
Ovviamente tutti questi piatti vanno accompagnati dal vini corposi quali in Nero d’Avola o il Nerello Mascalese.
Chi fa ancora il pane in casa, dopo averlo sfornatoe mentre il forno è ancora caldo, calìa(cioè tosta) un po’ di fave secche finché la buccia non diventa rossiccia. Sono queste le cosiddette favi caliati che si sgranocchiano di tanto in tanto, come fossero patatine.
Come abbiamo visto – limitandoci a due sole cucine regionali – l’utilizzo delle fave sia verdi, sia secche è il più svariato. Quelle primaverili, consumate crude con il pecorino con caciocavallo o con il salame, sono amatissime a Roma e nel centro Italia tanto quanto in Calabria e Sicilia, ma analogo consumo ne viene fatto in altre regioni italiane. Le fave secche invece, di norma vengono lessate e condite con olio e limone o aceto (preparazione tipica sia del Molise dove prende il nome difàfe arrecciàte, sia della Sicilia i favi a sali minutu, appunto). Oppure cucinate in nutrienti minestre o sostanziosi contorni, per esempio stufate in un soffritto di cipolla, quindi ridotte in purea ed accompagnate alla borragine (anche questo piatto tipico della cucina molisana e, per la precisione, del paesino di Campomarino).
Abbinate poi alla cicoria sbollentata e passata in padella (piatto tipico della Basilicata), il sapore dolciastro delle fave attenua un po’ quello amarognolo della cicoria: ne risulta un’accoppiata che, se accompagnata ad una fetta di pane con un filo d’olio extravergine, costituisce un piatto assolutamente completo dal punto di vista nutrizionale. Così come è un pasto leggero e pieno di nutrienti con i grassi buoni del pesce fave e baccalà (altro piatto tipico della Puglia, ma anche della cucina grossetana). Insomma, con le fave le combinazioni in cucina non mancano e questo è il momento per scoprirle tutte.