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Non solo caporalato: ecco la Calabria dell’agricoltura sociale

Giulia Ubaldi
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    Questo è forse uno degli articoli più difficili che mi sia mai capitato di scrivere. Cercare di raccontare una bella storia, ambientata negli stessi campi dove pochi giorni ne è avvenuta una molto brutta, e pensare che è solo una delle tante. Le vittime del razzismo, infatti, non fanno che crescere, con forme sempre più violente, esasperate, talvolta persino alimentate. Questa volta è avvenuto nella Piana di Gioia Tauro-Rosarno, che come saprete è stato il luogo dell’omicidio di Soumaila Sacko, il migrante di 29 anni ucciso a San Calogero in provincia di Vibo Valentia, mentre stava trasportando delle lamiere per costruire una baracca ai suoi compagni. Soumayla era un bracciante maliano, con permesso regolare di soggiorno, ma avrebbe potuto anche non avercelo, non avrebbe fatto differenza. Era impegnato nella lotta allo sfruttamento, in quanto attivista dell’Unione sindacale e difendeva a spada tratta i diritti dei braccianti agricoli.

    Se Soumayla è morto è perché ci trattano come animali, ma senza il nostro lavoro la Piana sarebbe ferma”. Noi oggi vogliamo parlarvi di chi, nella stessa piana, segna un percorso differente di agricoltura sociale in Calabria, forse creando meno scalpore: è l’azienda Opera Terrae della famiglia Varrà con la sua produzione biologica.

    Agricoltura sociale in Calabria: frutta bio da Rosarno

    coltivazioni clementine biologiche

    Vi avevamo già dimostrato come storicamente le migrazioni non hanno mai tolto nulla, anzi; in particolare, oggi nel settore agricolo sono “gli immigrati” a svolgere e rendere possibili l’esistenza di molte attività, quegli stessi che “ci rubano il lavoro”. In realtà c’è di più: non solo gli immigrati svolgono lavori che i locali si rifiutano di fare, ma portano avanti attività produttive che richiedono competenze specifiche, che spesso gli autoctoni non hanno. Eppure lavorare e essere utili alla società non dovrebbe essere il prezzo da pagare per venire accettati: sarebbe una tolleranza vestita di buone intenzioni.

    Ma che cosa succede nella Piana di Rosarno? Qui quasi ogni famiglia ha ancora un suo pezzo di terreno, per lo più adibito a frutteto; per fortuna, non in tutti i campi avvengono fatti di cronaca nera, come in quelli della famiglia Varrà, dove si coltiva prima di tutto rispetto.

    I frutti della Calabria: clementine e kiwi

    Forse non tutti sanno che i frutti calabresi per eccellenza sono le Clementine di Calabria IGP. A differenza delle arance, infatti, che prediligono il clima asciutto siciliano, le clementine hanno trovato qui il loro habitat ideale, in particolare in alcune aree: nella Piana di Sibari e Corigliano nel cosentino (dove producono anche un olio d’oliva eccezionale); nella Piana di Lamezia nel catanzarese e appunto nella Piana di Gioia Tauro-Rosarno e nella Locride nel reggino. Le piante, su terreni costieri e pianeggianti, sono ben distanziate da quelle dei mandarini per evitare qualsiasi forma di impollinazione che porterebbe alla produzione di frutti con semi (che è ciò che differenzia clementine e mandarini). La raccolta avviene una volta all’anno, tra ottobre e febbraio, con dei picchi nel mese di gennaio a seconda del clima; quelle più tardive dei nuovi innesti arrivano anche fino a marzo e aprile.

    Negli ultimi trent’anni a far compagnia alle clementine è il kiwi, nuovo protagonista della Piana: anch’egli ha trovato in questo ambiente non troppo rigido le condizioni ottimali per crescere e far concorrenza a quello della Nuova Zelanda, leader mondiale nella produzione. Dunque, tutte le volte che vi capiterà di trovare kiwi calabresi, a maggior ragione se dell’azienda Opera Terrae, non esitate a prenderli: è una coltivazione molto ardua e per le piccole produzione italiane è difficile tenere testa ai grandi numeri della grossa distribuzione. Questi kiwi si raccolgono a novembre e poi si mantengono in cella anche fino a maggio: non sarà complicato accorgersi del sapore che li contraddistingue da tutti quelli provati prima, soprattutto se arrivano direttamente dalla linea bio dell’azienda Opera Terrae.

    azienda opera terrae

    L’azienda Opera Terrae

    Dopo gli studi di Economia a Siena, Pasquale Varrà decide di far ritorno a Rosarno e di mettersi a lavorare nell’azienda di famiglia, esistente già dagli anni Trenta. Nel giro di pochi anni cambia le sorti dell’attività, con un’importante e ai tempi innovativa conversione al biologico nel 2004. Oltre a clementine e kiwi, su cui stanno puntando moltissimo, l’azienda produce anche arance, bergamotto, ortaggi e canditi, di cui Rosarno è un punto di riferimento importante nella lavorazione. Si tratta di una tradizione antica: qui vengono prodotti tutti quei derivati e semilavorati dalle bucce degli agrumi, che si trovano in dolci come il panettone. L’azienda Opera Terrae ha infatti intenzione di aprire a breve un laboratorio di trasformazione per portare avanti questa lavorazione artigianale, insieme alla produzione già attiva di marmellate e confetture, tutte rigorosamente bio. Oggi i Varrà sono diventati ormai un punto di riferimento anche a Roma per la vendita diretta di agrumi, ma anche di ortaggi e verdure: sono ormai quasi 500 le famiglie romane, che organizzate in gruppo o autonomamente, acquistano con periodicità i prodotti Opera Terrae Bio, condividendone valori e filosofia.

    frutteti opera terrae

    La Cooperativa I frutti del Sole

    L’azienda Opera Terrae è socia de I frutti del Sole, una cooperativa di circa cinquanta produttori biologici che danno lavoro regolare ai migranti, in particolare delle tendopoli nell’area industriale di San Ferdinando, assicurando l’assenza di alcun tipo di sfruttamento. Grazie alla collaborazione con associazioni del posto, che affiancano questi ragazzi e li aiutano nella convivenza, l’azienda Opera Terrae, insieme alle altre, è fornitrice della rete solidale dei gruppi di acquisto. Infatti più di trecento gruppi di acquisto solidale in Italia acquistano i loro agrumi proprio per sostenere una filiera pulita. E sapete perché, almeno i Varrà, lo fanno? Perché come ha risposto Alberto Varrà, il papà di Pasquale, “noi sappiamo cosa vuol dire”, essendo discendenti di una famiglia che è sempre emigrata, come il bisnonno Giuseppe in America. Dovremmo forse ricordarci tutti un po’ di più che, fino a pochi decenni fa, “noi italiani” siamo stati grandi migranti, perché l’Italia era semplicemente uno di quei paesi da cui per eccellenza si emigrava.

    Tutte le foto sono di Giulia Ubaldi.

    Antropologa del cibo, è nata a Milano, dove vive e scrive per varie testate, tra cui La Cucina Italiana, Scatti di Gusto, Vanity Fair e le Guide Espresso. Il suo piatto preferito sono gli spaghetti alle vongole, perché per lei sono diventati un'idea platonica: "qualsiasi loro manifestazione nella realtà sarà sempre una pallida copia di quella nell'iperuranio". Nella sua cucina non mancano mai pistilli di zafferano, che prima coltivava!"

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