progetto filiere

Dai campi al supermercato: cosa sappiamo delle “Filiere” agricole?

Angela Caporale
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    Rosarno e Foggia, lo sfruttamento dei braccianti e l’emergenza dei migranti: è a questo che siamo abituati a pensare quando si parla di caporalato, ma la questione è più profonda, complessa e intricata. Per questo il giornalista Antonello Mangano che da anni si occupa del tema, ha voluto dar vita a “Filiere”, un’iniziativa che mira a fare chiarezza sul percorso che pomodori, arance e in generale i prodotti agricoli italiani fanno dai campi del Sud Italia e non soltanto fino alle nostre tavole. L’abbiamo intervistato per farci raccontare in cosa consiste il progetto “Filiere” e cosa può fare un consumatore per evitare di acquistare e mangiare prodotti che portano il peso dello sfruttamento dei lavoratori.

    Progetto “Filiere”, informare per cambiare

    lavoratori illegali agricoli

    “Filiere nasce dai tanti incontri in giro per l’Italia – spiega Mangano – durante i quali mi sono reso conto che, soprattutto nelle scuole, spesso sull’argomento c’è tanta confusione. Si mescolano insieme la presenza della mafia in agricoltura, il caporalato, le migrazioni, mentre si ignorano aspetti legati alla grande distribuzione e più in generale alla struttura stessa della filiera agricola in Italia.” Una questione che non si può definire come un’emergenza recente, basti pensare al caso di Jerry Masslo, assassinato nel 1989. Jerry era un rifugiato sudafricano che aveva trovato questa forma di riconoscimento in Italia, ma non un lavoro degno e pulito: era impiegato nella raccolta del pomodoro a Villa Literno, in Campania, in condizioni di sfruttamento e caporalato.

    Da qui l’idea di raccogliere in un unico punto, un sito realizzato in collaborazione con Terre Libere, tutte le informazioni più semplici, utili a fare scelte consapevoli. “L’approccio è quasi didattico con un glossario, una cronologia e, con il tempo, degli approfondimenti dedicati alle situazioni più calde.”

    “L’auspicio è che un consumatore informato possa esercitare della pressione sui supermercati affinché si impegnino a realizzare una politica più trasparente. Per questo insisto – spiega il giornalista – sul cambio di punto di vista. La sensazione è che tutto inizi e finisca nel ghetto, ma questo tipo di aggregazioni sono la cartina tornasole di come funziona l’intera filiera agricola, almeno lì.” È del 2012, per fare solo un esempio, l’inchiesta pubblicata sul The Ecologist che denunciava il fatto che la Coca Cola utilizzasse le arance raccolte sfruttando i braccianti a Rosarno. Oggi la situazione è cambiata, almeno dal punto di vista della grande multinazionale, ma non sono davvero migliorate le condizioni dei lavoratori, come conferma anche il report pubblicato a maggio da Medici per i Diritti Umani.

    Criticità di una situazione endemica

    La complessità della situazione fa sì che sia necessario evitare generalizzazioni o semplificazioni eccessive. La stessa filiera del pomodoro, da anni nel mirino, presenta caratteristiche differenti in varie aree d’Italia: “tra i punti più critici però – sottolinea Mangano – non possiamo non considerare il foggiano, la Calabria, il Chianti, il Piemonte in maniera più o meno visibile.”

    Secondo il giornalista, i problemi che determinano lo sfruttamento sono primariamente due: da un lato, la compressione del prezzo di vendita dei prodotti e, dall’altro, la presenza di un bacino di manodopera a basso costo a cui, per i produttori è facile attingere. “Nel primo caso, la questione è legata alle richieste da parte della grande distribuzione di prezzi sempre più bassi che costringono a competere al ribasso, risultato che il produttore può ottenere solo rifacendosi sul costo del lavoro.”

    Inoltre, Antonello Mangano evidenzia come questa tendenza ad attingere a manodopera a basso costo si estenda anche laddove non c’è una vera esigenza, come nel Chianti, in Toscana, oppure nei frutteti cuneesi, ma anche in Trentino. “L’impressione è che esista un nesso con le politiche di gestione dell’accoglienza che hanno prodotto questi bacini di lavoratori a disposizione e che fanno gola a molte aziende.”

    campi di pomodori

    Non solo migranti

    I luoghi caldi restano, appunto, gli stessi: la Basilicata e la Puglia per i pomodori, la Calabria per le arance, alcune aree della Sicilia meridionale, l’Agro Pontino dove un numero considerevole di braccianti indiani, protagonisti anche del documentario “The Harvest”. “Non cambia lo scenario, non cambiano le condizioni di lavoro e sfruttamento – commenta Mangano – cambiano in parte le persone, forse, di sicuro non le scelte che hanno agevolato e agevolano la creazione di manodopera ricattabile. Non dimentichiamo che gran parte dei braccianti sfruttati sono italiani”. Il fenomeno è complesso da individuare e registrare, meno visibile, paradossalmente, rispetto ai ghetti, ma casi come quello di Paola Clemente, morta in un campo ad Adria nel 2015.

    “Nel corso degli anni – aggiunge il giornalista – si è creato lo stereotipo del bracciante africano sfruttato e sicuramente risponde a una realtà, ma ci sono anche molti italiani, europei, asiatici nelle stesse condizioni che restano invisibili finché non scoppia un incendio o non c’è una morte.”

    #StopSpesa: cosa si può fare?

    arance filiera

    Il progetto “Filiere” lancia la campagna #StopSpesa rivolgendosi ai consumatori, a tutti coloro i quali acquistano frutta e verdura nei supermercati senza poter sapere, almeno allo stato attuale delle cose, se sono state prodotte in maniera giusta oppure no. Esistono alternative trasparenti come la salsa di pomodoro Sfrutta Zero di cui vi abbiamo raccontato, ma nella maggior parte dei casi sulle etichette dei prodotti leggiamo composizione e origine, nulla sul rispetto dei diritti dei lavoratori impiegati lungo la filiera.

    “Da questo punto di vista esiste una proposta, nemmeno troppo recente, ovvero quella di far riferimento all’indice di congruità che consente di sapere, per esempio, quante persone sono state assunte per quanti giorni di lavoro per poter raccogliere una data quantità di pomodori”. In questo modo, secondo Mangano, potrebbe diventare più semplice capire se il dato presentato in etichetta è congruo con un trattamento dignitoso del bracciante.

    “In generale, non si può prescindere da un cambiamento che porti a evitare di creare bacini di persone sfruttabili, da un lato, e di alimentare il circolo vizioso del basso costo. È vero che da consumatori, precari anche noi, siamo felici di spendere poco per un barattolo di salsa di pomodoro” ma, come sottolinea con forza il giornalista, dovrebbe crescere la consapevolezza di quanto si nasconde dietro a un prezzo e del fatto che l’agricoltura è soltanto una spia di come funziona un sistema nel quale anche noi siamo immersi. “Mi verrebbe da dire che dovremmo chiedere tutti condizioni più dignitose e prodotti che rispettino i diritti”.

    Senza disperdere la memoria di quanto fatto fino ad ora per denunciare e portare alla luce come caporalato e sfruttamento si siano radicati nella filiera agricola. “Filiere – conclude Mangano – vuole rappresentare un punto di continuità, anche per questo ho voluto dedicarlo ad Alessandro Leogrande. Quando ho saputo della sua scomparsa stavo lavorando su dei suoi testi, mi è sembrato giusto ricordare una persona che poteva dare ancora tanto, rimarcando una volta in più il fatto che non si tratta di un’emergenza, e che informazione e memoria sono imprescindibili.”

    Avete mai osservato sulle etichette dei prodotti agricoli italiani indicazioni a proposito dei diritti dei lavoratori?

    Fonte immagine in evidenza: www.terrelibere.org/filiere

    Angela, con passaporto friulano e cuore bolognese, vive a Udine e si occupa di giornalismo e comunicazione in ambito culturale e sociale. Ha pubblicato due libri e dal 2016 collabora con Il Giornale del Cibo, dove scrive di sostenibilità, sociale e food innovation. Il suo comfort food sono i tortelloni burro e salvia, per i quali ha imparato a fare la sfoglia, condividendoli ogni volta che ne sente il bisogno.

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