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Caporalato: sfruttamento e violenza sulle donne nella filiera agricola

Angela Caporale
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    Lo sfruttamento assume sfumature ancor più violente quando ne sono protagoniste le donne: invisibili tra gli invisibili, lavorano nei campi in tutta Europa, a condizioni peggiori dei colleghi uomini, già al di sotto di quanto previsto dalla legge. Questo è il quadro emerso da inchieste e ricerche di associazioni, docenti e giornalisti tra cui, per esempio, Stefania Prandi che, con il suo libro “Oro rosso”, è riuscita ad alzare il sipario sulle violenze subite da migliaia di donne “impiegate” in Spagna, in Marocco e anche in Italia.

    Donne e caporalato: sfruttamento e abusi, le vite nei campi

    Il trend è fotografato anche dal report di Oxfam 2018 “Sfruttati”: ci sono anche le donne tra le migliaia di persone impiegate nel settore agroalimentare in condizioni al limite della legalità tra lavoro nero e lavoro grigio. Una notizia che purtroppo non sorprende, basti pensare, ad esempio, a Paola Clemente, morta di fatica a 49 nella calda estate del 2015 ad Andria, sfruttata per pochi euro e nessuna garanzia.

    Le donne sono molto richieste in alcuni settori, come la raccolta di uva e fragole, frutti che richiedono maggiore delicatezza. Una “preferenza” che, nei fatti, le penalizza per via di alcuni elementi strutturali e trasversali che le rendono più vulnerabili: la disparità di genere, la necessità di sostenere economicamente la propria famiglia, l’esposizione a un maggior rischio di subire violenza sessuale, minor potere dal punto di vista sindacale. I dati raccolti da Oxfam testimoniano, da un lato, il fatto che le donne vengono pagate in media il 20-30% in meno rispetto agli uomini impiegati nella stessa occupazione e, dall’altro, che subiscono maggiormente ricatti e abusi.

    Contemporaneamente, si rileva anche un secondo fenomeno, che cresce di pari passo con la diffusione e il radicamento della presenza nelle donne nelle maglie dello sfruttamento: l’aumento delle donne caporali. Lo denuncia un articolo del Corriere del Mezzogiorno che evidenzia come la fisionomia dello sfruttatore stia cambiando: non solo il “padrone” rozzo e rude, ma anche la consorte che riesce meglio a reclutare altre donne. Una questione di fiducia, almeno sulla carta, che sembrerebbe capace di facilitare i contatti, senza offrire però alcuna garanzia aggiuntiva, né condizioni di lavoro più umane. Si tratta, solamente, di un altro modo per acuire una vulnerabilità che continua a fare delle donne sfruttate delle persone prive di voce.

    “Oro rosso”, in viaggio tra le serre di Italia, Spagna e Marocco

    Stefania Prandi si è calata nel cuore del Mediterraneo produttivo, quello che coltiva e raccoglie eccellenze per tutto il mondo, ma che si macchia, ancora oggi, di pratiche illegali e di violazioni dei diritti umani. “Oro rosso” esplora tre aree accomunate dalle medesime pratiche: il ragusano in Sicilia, Huelva a Palos de la Frontera in Spagna e l’area attorno ad Agadir, in Marocco.

    Ovunque le donne protagoniste delle storie raccolte dalla giornalista non sono in condizioni di illegalità: straniere sì, ma dotate dei documenti per trovarsi sul territorio e per potere lavorare. Ma il “pezzo di carta” non è garanzia sufficiente, né per ottenere un salario equo né per proteggersi dagli abusi sessuali.

    Solo grazie al lavoro d’inchiesta di giornalisti come la Prandi, le prime denunce stanno comparendo, tra molte difficoltà. Spesso è la parola di una donna contro quella del suo capo, come nel caso di Kerima, che commenta: “Non è facile provare lo stupro perché non ci sono tracce organiche. Come può dimostrare che è stato proprio lui?”

    In Marocco vengono chiamate “mère célibataire”, madri non sposate, perché con figli a carico al di fuori di un matrimonio. Poco importa se questi bambini siano il frutto della violenza, resta la pratica di emarginazione sociale che rende le donne ancor più vulnerabili, con la necessità di lavorare per poter assicurare almeno un pasto al giorno ai bambini e, di conseguenza, una maggiore esposizione al ricatto.

    donne caporali

    Rovsky/shutterstock.com

    Violenza, ricatti e paura di perdere il lavoro

    Nonostante sia un fenomeno sommerso e poco raccontato, le violenze sono reali. E lo sono anche in Italia. Oxfam riporta il numero di aborti delle ragazze romene nella provincia di Ragusa: 119 nel 2015 e 111 nel 2016. Si tratta del 20% degli aborti dell’area in quel periodo di tempo, un dato che pesa ancor di più se si considera che le donne romene sono il 20% della popolazione femminile della provincia. Secondo Oxfam sono 2.000 in tutto, secondo altre stime più di 7.000 (Proxyma Association) le braccianti che vivono e lavorano in condizioni di grave sfruttamento in Sicilia, molte delle quali sono romene e, in generale, originarie dell’Europa dell’Est.

    Pochi euro per giornate di lavoro di 10 ore, pane raffermo e cibo scaduto come pranzo, nessun contratto, nessun diritto e, come se non bastasse, la violenza che si esprime in minacce, ricatti, stupri. Talvolta all’insaputa delle famiglie, altre volte addirittura con il consenso del marito. Come nel caso di Nicoleta Bolos, picchiata e violentata dal caporale “autorizzato” dal marito che, a un suo primo rifiuto di andare a letto con il capo, la picchiò.

    La sua storia è stata raccolta e raccontata da Lorenzo Tondo e Annie Kelly che, nel 2017, hanno pubblicato un’inchiesta in lingua inglese sul Guardian che ha provocato un piccolo terremoto non soltanto in Italia. La gravità della situazione non è, però, una novità, come conferma anche la professoressa Alessandra Sciurba dell’Università di Palermo, che già nel 2015 aveva pubblicato un articolo sulla rivista Anti-Trafficking Review in cui denunciava le stesse condizioni di sfruttamento, vulnerabilità e violenza per le donne impiegate nella filiera agricola in Sicilia.

    All’omertà generalizzata si aggiunge la paura di denunciare i propri capi: come spiega il sostituto procuratore della repubblica Valentina Botti, “la maggior parte delle donne romene accetta l’abuso come una forma di sacrificio personale da sopportare per poter mantenere il lavoro. La conseguenza di perdere l’impiego, per molte di loro, è devastante.”Il rischio è concreto, come testimonia la storia di Gloria che, dopo aver rifiutato le avances del proprietario della serra dove lavorava con il marito e dopo averlo denunciato alla polizia, è stata licenziata e non è riuscita a trovare un’altra occupazione: “l’ex capo ha sparso la voce che l’avevo denunciato e ora nessuno mi vuole più.”

    Vulnerabilità a tavola

    I reportage, le inchieste, i report portano alla luce una situazione drammatica e trasversale, caratterizzata da diritti violati, abusi e una difficoltà estrema a portare alla luce quanto accade nei campi e nelle serre. Quegli stessi luoghi dove viene coltivato, raccolto e confezionato il cibo che arriva dritto sulle tavole. Non si tratta, infatti, di fenomeni astratti, ma di violenze concrete sulle persone più vulnerabili, che raccolgono le fragole o altri frutti che  durante la bella stagione fanno capolino negli ortofrutta in tutta Italia e non soltanto.

     

    Eravate a conoscenza delle condizioni di vita e di lavoro delle donne nella filiera agricola?

    Passaporto friulano e cuore bolognese, Angela vive a Udine dove lavora come giornalista freelance. Per Il Giornale del Cibo scrive di attualità, sociale e food innovation. Il suo piatto preferito sono i tortelloni burro, salvia e una sana spolverata di parmigiano: comfort food per eccellenza, ha imparato a fare la sfoglia per poterli mangiare e condividere ogni volta che ne sente il bisogno.

    2 risposte a “Caporalato: sfruttamento e violenza sulle donne nella filiera agricola”

    1. Nicola de Veredicis ha detto:

      numero di aborti delle ragazze romene nella provincia di Ragusa: 119 nel 2015 e 111 nel 2016. Si tratta del 20% degli aborti dell’area in quel periodo di tempo, un dato che pesa ancor di più se si considera che le donne romene sono il 20% della popolazione femminile della provincia.

      Ma sarebbe perfetto come percentuale! 20% e 20% ! Mah. Qui qualcuno ha sbagliato qualcosa.

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