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La Vitamina D potrebbe aumentare la resistenza al COVID-19? L’ipotesi dell’Università di Torino

Giulia Zamboni Gruppioni Petruzzelli
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Nei giorni scorsi, l’Università degli Studi di Torino ha diffuso un documento sugli effetti antinfettivi della vitamina D e il suo possibile – sottolineiamo possibile – ruolo preventivo e terapeutico nella gestione della pandemia da COVID-19. L’ipotesi, elaborata da Giancarlo Isaia, Docente di Geriatria e Presidente dell’Accademia di Medicina di Torino, ed Enzo Medico, Professore Ordinario di Istologia all’Università di Torino, si fonda su una raccolta di alcune evidenze scientifiche circa i benefici della vitamina D per l’organismo umano, e sui primi dati disponibili relativi ai pazienti ricoverati per coronavirus. Tra questi ultimi si registra infatti “una elevatissima prevalenza di Ipovitaminosi D”, ovvero di carenza di vitamina D. Non si tratta quindi – e ci teniamo a ribadirlo – di uno studio clinico vero e proprio e non ha, pertanto, una comprovata valenza scientifica, né può essere interpretato come una terapia anti-contagio o curativa. L’ipotesi resta tuttavia uno spunto interessante che ci ricorda, una volta di più, quali sono gli effetti positivi della vitamina D.
Vediamo cosa suggerisce esattamente in questo articolo.

Vitamina D e coronavirus: che relazione c’è?

test vitamina d

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Secondo quanto suggerito dagli studiosi, un adeguato livello di vitamina D potrebbe aiutare non solo a prevenire la comparsa di malattie croniche negli individui più anziani, tra i soggetti più fragili e colpiti dall’epidemia, ma anche a rafforzare il sistema immunitario e, quindi, ad aumentare la resistenza contro il nuovo coronavirus. Tanto più che, come già accennato, i primi numeri disponibili sui contagiati ospedalizzati confermerebbero la correlazione tra scarsità di vitamina D e COVID-19. Questo potrebbe spiegare anche il perché della distribuzione geografica del virus, che sembra aver coinvolto soprattutto i Paesi situati al di sopra del Tropico del Cancro (Europa), con relativa minore incidenza in quelli subtropicali. 

Isaia e Medico non mancano infatti di notare come l’Italia sia, insieme a Spagna e Grecia, uno dei Paesi europei a maggiore incidenza di ipovitaminosi D. Da noi, circa il 79% delle donne anziane soffre di questa carenza, e la comparsa di un focolaio in Piemonte, all’interno di un convento di suore di clausura (poco, se non per nulla, esposte alla luce solare), sarebbe un’ulteriore conferma di questa teoria.
Il consiglio è, quindi, di assicurarsi che tutta la popolazione – e soprattutto quella anziana, i contagiati, i loro parenti e chi vive in regime di clausura – abbia adeguati livelli di vitamina D. Inoltre, prosegue il documento, “potrebbe anche essere considerata la somministrazione della forma attiva della Vitamina D, il Calcitriolo, per via endovenosa nei pazienti affetti da COVID- 19 e con funzionalità respiratoria particolarmente compromessa”.

Se, però, nell’usanza comune due indizi fanno una prova, in ambito sanitario – per fortuna – non è così: i Docenti sono infatti molto attenti a specificare che si tratta di una ipotesi volta a far emergere “possibili concause o specifici fattori di rischio”. Inoltre, i dati emersi “sono stati giudicati molto interessanti” dai Soci dell’Accademia di Medicina di Torino e la loro teoria “può essere considerata verosimile”: ma non è ancora stata accertata come vera e comprovata. Attenzione, quindi, a non interpretare un’ipotesi scientifica come la soluzione, per un verso, o la causa, per un altro, del problema: l’assunzione massiccia di vitamina D probabilmente aiuta, ma non rende immuni dal virus, così come la sua carenza non coincide con l’eventuale contrazione del COVID-19. In questa fase ancora del tutto sperimentale, sia per quanto riguarda le cure, che le analisi epidemiologiche, non esistono prescrizioni mediche universali e accertate

Dove si trova la vitamina D? 

Ma dove si trova la vitamina D e come fa il nostro corpo ad assumerla? La fonte principale è la luce solare: la nostra pelle, esposta periodicamente ai suoi raggi ultravioletti, sintetizza la vitamina D, “ricaricando” il corpo per l’inverno, quando il clima non consente di passare molto tempo all’aria aperta e le ore di buio prevalgono anche durante il giorno. Solitamente, la scorta primaverile-estiva viene rilasciata e consumata gradualmente dall’organismo anche nei mesi successivi e può durare fino a febbraio/marzo, periodo in cui tipicamente si rileva il calo di valori, a causa anche di una minore irradiazione solare.  

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Per sopperire all’eventuale mancanza di questa sostanza, è possibile ricorrere anche ad altre risorse, tra cui l’alimentazione. Sono diversi, infatti, gli alimenti naturalmente ricchi di vitamina D, come ad esempio alcuni tipi di pesce, i funghi, le uova e certi formaggi, prevalentemente grassi. Oltre a questi, esistono anche diversi cibi addizionati con la vitamina D, come latte, yogurt e formaggio, molto diffusi nei Paesi del Nord Europa (il che, tornando alla ricerca dell’Università di Torino, spiegherebbe anche la minore diffusione del coronavirus in quelle zone). Infine, in casi specifici, è necessario aumentare i livelli di vitamina D attraverso preparati farmaceutici e sotto controllo medico. 

Effetti benefici della vitamina D 

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Tra gli effetti positivi della vitamina D, Isaia e Medico citano soprattutto le sue proprietà antinfettive, ma non solo. Questi i principali benefici: 

  • Alterazione, in senso positivo, del sistema immunitario. 
  • Riduzione dell’incidenza di infezioni respiratorie di origine virale, incluse quelle da coronavirus. 
  • Azione di contrasto ai danni polmonari legati all’iperinfiammazione. 
  • Prevenzione dell’osteoporosi.

Mantenere un livello adeguato di vitamina D, quindi, è importante per la salute e il benessere fisico in generale, e potrebbe avere un ruolo significativo anche nel contrasto agli effetti di alcuni virus influenzali. 

Sono numerosi, e ancora poco prevedibili, gli esiti che questa pandemia avrà sulla società quando l’emergenza sarà finita. Tuttavia, tra quelli immediatamente visibili, si riscontra certamente il rischio di un maggiore spreco alimentare, nonché la divulgazione di notizie false e non comprovate: è importante, quindi, considerare quella dell’Università di Studi di Torino un’ipotesi sicuramente titolata, ma pur sempre, ancora, un’ipotesi. Rimane valido il consiglio di seguire le disposizioni ufficiali e adottare comportamenti responsabili, anche in materia di Prevenzione e Trattamento.

Giulia è nata a Bologna ma geni, pancia e cuore sono pugliesi. Scrive principalmente di tendenze alimentari e dei rapporti tra cibo e società. Al mestolo preferisce la forchetta che destreggia con abilità soprattutto quando in gioco c'è l'ultima patatina fritta. Nella sua cucina non deve mai mancare... un cuoco!

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