Week end a Marsala

Adriana Angelieri

di Martino Ragusa Non è frequente sentire la frase: “Il prossimo week end andrò a Marsala”. Un po’ mi dispiace che questa perla della Sicilia venga considerata solo il luogo di produzione di un celeberrimo vino e il capolinea dei garibaldini. Ma devo anche confessare la grande soddisfazione di ritrovarla a ogni nuova visita sempre come l’ho lasciata l’ultima volta, a misura di visitatore fuori dai circuiti del turismo incontrollato. Vi consiglio di scoprirla proprio a Settembre, uno dei mesi migliori per visitare la Sicilia, e   arrivandoci dalla strada provinciale Trapani-Marsala il cui ultimo tratto litoraneo vi immergerà nel paesaggio surreale delle saline, gigantesche tessere di un mosaico policromo e lucente.  Non so con quali colori decideranno di accogliervi, dipenderà dall’ora, dalle condizioni del tempo, dalla stagione. Le vedrete con la sfumatura cromatica decisa dal caso, ma sempre sullo sfondo delle Egadi azzurre e sempre vegliate dai grandi mulini a vento, con le cupole dello stesso rosso dei coralli di Marettimo. Chi si è rammaricato del loro stato di abbandono prolungato per troppi anni, ora può esaltarsi  nel vederli finalmente restaurati e restituiti alla loro antica funzione di spostare l’acqua da una vasca all’altra e macinare il sale. Nelle saline dovrete tornarci al tramonto, per ammirarla infuocate d’arancio e di rosso e per osservare le numerose specie di aironi e altri uccelli acquatici che qui hanno trovato il loro habitat ideale. A questo proposito, va riconosciuto all’industria marsalese del sale, condotta con metodi tradizionali, il merito di aiutare la natura anziché minacciarla. Nelle saline dovrete tornarci anche in pieno giorno, da aprile a settembre, per spiare il lavoro dei salinai.  Seminudi, sotto il sole che tenta inutilmente di sfinirli, riempiono di sale le carriole e corrono a svuotarle una cinquantina di metri più in là sull’ariùni, la piattaforma dove sorgerà il prossimo cumulo. Sono veloci ai limiti delle umane possibilità, ma se vogliono fare giornata devono correre perché sono pagati “a carriola”.  Tanta energia contrasta con tutta quell’immobilità di sole e di sale e con l’impassibilità del signatùri, l’uomo di fiducia della proprietà incaricato di contare le scarriolate di ciascun operaio. Il paesaggio delle saline si confonde con quello dello Stagnone, una grande laguna di acque basse, molto salmastre e floride di vita. E’ qui che i fenici pescavano i murici dai quali estraevano la porpora usata per tingere i tessuti, ed è qui che oggi i marsalesi pescano i pesci (spigole, orate, saraghi e sogliole) che finiscono nelle tavole delle loro case e dei ristoranti. Tra le isole lagunari di Schola, Isola Longa e Santa Maria emerge il disco quasi perfetto di Mozia.  Ci arriverete dopo una breve traversata a bordo di un piccolo battello, il Thanit, unico ad essere autorizzato ad approdare nell’isola proprietà privata della fondazione Whitaker. All’interno di un piccolo museo nel cuore di Mozia incontrerete “Il Giovinetto”, magnifica statua testimone dello splendore raggiunto dalla città punico-fenicia nel V secolo avanti Cristo. Il ragazzo è raffigurato con una tunica maschile a pieghe sottilissime e molto aderente, posta più ad evidenziare che a coprire le forme perfette del corpo atletico. Forse si tratta di un auriga o di un altro atleta vittorioso, oppure di un magistrato punico (Sufeta). Probabilmente il capolavoro è stato realizzato in una città della Magna Grecia siciliana, Selinunte o Agrigento, ed è anche difficile stabilire se l'opera sia stata a portata a Mozia dai Cartaginesi come bottino di Guerra o se sia stata commissionata da un ricco cittadino dell’isola. Sicura, tra tante incertezze, la datazione intorno al 440 – 450 a.c. e ancora più certa l’emozione che questa statua è riesce a donare a chi l’ammira. Sorprendenti anche le grandi dimensioni, ben superiori a quelle reali. Proprio questa circostanza fa propendere per l’ipotesi che il Giovinetto rappresenti una divinità, probabilmente il dio punico Melqart, corrispondente all'Eracle dei Greci. Giuseppe Whitacher, eclettico studioso inglese appassionato di ornitologia e archeologia, ha portato alla superficie anche le notevoli mura cittadine con due porte d’accesso, torrioni e fortificazioni, un’area sacra, la necropoli antica, il Tophet, cimitero dei bambini sacrificati, il Kothon, un bacino di carenaggio per le navi e la Casa dei Mosaici. Marsala fu fondata nel 397 a.c. con il nome di Lilibeo dai fenici in fuga da Mozia dopo la sconfitta subita dai Siracusani. Lilibeo fu poi conquistata dai romani e in seguito dagli arabi che la chiamarono Marsa-Allah, Porto di Dio. Il grande centro storico ha forma quadrata ed è chiuso da una cinta muraria con quattro porte due delle quali ancora esistenti. Va scoperto con una lunga passeggiata senza meta né programmi.  E’ stato restaurato di recente e si offre al forestiero nella forma migliore, tirato a lucido ma pieno d’anima, privo di leziosità artificiose. La bella scenografia barocca di Piazza Loggia (ufficialmente “Piazza della Repubblica”, ma nessuno la chiama così), il Mercato del Pesce, il dedalo di stradine strette e pulite della porzione più araba della città sono altrettanti palcoscenici ben costruiti dove però si rappresenta una vita intensa di voci e movimento, sempre animata da quella composta chiassosità tipica dei centri di provincia siciliani.   La città di Marsala è il degno baricentro di un paesaggio complesso e senza uguali. Intensamente marino, come abbiamo visto, ma anche montano, con lo splendido Monte San Giuliano sulla cui vetta sorge il borgo medievale di Erice, e con una campagna di orti e vigneti tenuti in modo perfetto, maniacalmente curati a vantaggio di un vino fra i più famosi del mondo. Tra le coltivazioni sorgono, segnalati da palme, i bagli. Sono fattorie fortificate a disegno arabo con un grande cortile interno molti dei quali conservano ancora la loro antica funzione agricola. Altri si sono via via trasformati in ville private, stabilimenti vinicoli per la produzione del Marsala, agriturismi e alberghi di lusso. Anche i bagli lasceranno le loro brave tracce nella vostra memoria. Ma devo avvertirvi di un pericolo: ce ne sono tanti ancora da restaurare e possono rivelarsi altrettanti richiami capaci di fare deviare la vostra vita verso direzioni inaspettate.   Dopotutto le Sirene di Ulisse giravano da queste parti… E arriviamo alla tavola marsalese e al suo vessillo: il cous-cous di pesce.  Va detto subito che a Marsala, come in tutta la costa trapanese, il cous-cous non è un piatto etnico di moda ma un’autentica specialità locale giunta dalla dirimpettaia Tunisia. E’ il protagonista del pranzo delle feste grandi ed è ben diverso da quello precotto in circolazione ormai ovunque nel nostro paese. Basti pensare che richiede una preparazione di almeno 4 ore, dalla ‘ncucciata mediante la quale i grani di semola vengono aggregati dall’acqua in piccole palline, alla lunga cottura a vapore nella cuscussiera di terracotta, al condimento finale con una ricca zuppa di pesce.   Ovviamente non mancano le altre specialità siciliane: la pasta con le sarde, la caponata, le arancine, la cassata, i cannoli. E accanto a queste, le nuove proposte creative di chef d’ingegno ma anche avvantaggiati dalla disponibilità di materie prime di grandissima qualità: le spigole dello Stagnone, il tonno di Favignana, le aragoste di Marettimo. Immaginate questi pesci uniti di volta in volta agli spettacolari ortaggi della campagna lilibetana, ai busiati, i maccheroni al ferro fatti a mano, o solo semplicemente arrostiti o fritti nell’olio extravergine di oliva nocellara. Pensate a questi piatti accompagnati dai preziosi vini bianchi locali e avrete un’idea di quanto vi riserva il banchetto marsalese.    

Siciliana trasferita a Bologna per i tortellini e per il lavoro. Per Il Giornale del Cibo revisiona e crea contenuti. Il suo piatto preferito può essere un qualunque risotto, purché sia fatto bene! In cucina non devono mancare: basilico e olio buono.

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