Tasse sulla carne rossa: ha senso introdurle per preservare salute e ambiente?

Matteo Garuti
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    Le tasse sulla carne rossa potrebbero essere un’ipotesi realistica secondo alcuni, da applicare su larga scala, a vantaggio della salute e dell’ambiente. Del resto, da tempo le politiche pubbliche si muovono per stimolare, se non forzare, l’adozione di stili di vita più sani, non da ultimo per ridurre le spese a carico dei servizi sanitari. Nei mesi scorsi una strutturata ricerca dell’Università di Oxford ha suggerito convintamente questa strada, aprendo il dibattito tra favorevoli e contrari. Sarebbe davvero una politica giusta ed efficace? E nel caso, come dovrebbe essere pianificata? Dopo aver approfondito il tema delle tasse sul cibo spazzatura, cercheremo di saperne di più su questa possibilità.

    Tasse sulla carne rossa: una ricerca le sostiene

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    Nell’ambito delle soluzioni per correggere le abitudini alimentari scorrette, la tassazione è probabilmente la più drastica a disposizione dei decisori politici. Negli ultimi anni, tuttavia, questo strumento è stato più volte preso in considerazione e in alcuni casi applicato, in particolare sui cosiddetti “cibi spazzatura” come le bibite gassate zuccherate. L’idea di imporre prezzi maggiorati sulla carne, però, rappresenterebbe un notevole salto in avanti, su prodotti non etichettabili come junk food

    Secondo un recente studio dell’Università di Oxford, una tassa sulla carne rossa potrebbe salvare molte vite, oltre a ridurre i costi sanitari – aspetto da non porre in secondo piano – e ad avere ripercussioni positive sull’ambiente. Entrando nel dettaglio, la ricerca ha stabilito le percentuali di tassazione per i diversi prodotti, considerando il loro impatto sulla salute delle persone e sulle spese mediche. Con le tasse, al netto di tutto, si recupererebbe circa il 70% dei 285 miliardi di dollari spesi globalmente ogni anno per curare le patologie favorite dal consumo eccessivo di carne rossa (diverse forme di tumore, malattie coronariche, ictus e diabete di tipo 2), considerando i costi diretti e indiretti.

    Più salute e meno spese sanitarie?

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    Quando si superano i limiti consigliati dalle autorità sanitarie, ricordati nei nostri approfondimenti, la carne fa male alla salute, ai bilanci nazionali e all’ambiente. Per contrastare gli eccessi a tavola, gli scienziati hanno formulato diverse aliquote per 149 Paesi nel mondo, in base ai consumi nazionali e ai costi dei vari sistemi sanitari. Gli Stati Uniti, ad esempio, avrebbero tra le percentuali più elevate, fino al 163% su prosciutto e salsicce e al 34% sulle bistecche. Nelle nazioni in via di sviluppo, dove i consumi sono molto più scarsi, l’aliquota sarebbe quasi nulla. Seguendo questa logica, quindi, nei Paesi sviluppati graverebbe in media un 20% in più sulle carni rosse non trasformate, mentre per quelle trasformate e potenzialmente più nocive la percentuale schizzerebbe intorno al 110%.

    Secondo gli scienziati, questa politica fiscale potrebbe ridurre di 220mila unità il numero dei decessi dovuti a patologie associate all’alimentazione, con un risparmio complessivo di ben 170 miliardi di dollari. L’aumento dei prezzi dovuto alla tassa sulla carne rossa ne ridurrebbe il consumo di due porzioni alla settimana, mentre l’uso di carni lavorate nel mondo scenderebbe del 16%.

    Per giustificare l’introduzione dell’imposta, i ricercatori evidenziano che le spese sanitarie causate dalla carne rossa normalmente ricadono su tutti i contribuenti, e non solo sui consumatori più incalliti. Pertanto, si tratterebbe di una sorta di distribuzione corretta delle responsabilità.

    Come si accennava, nel saldo positivo di questa politica rientrerebbe anche il dato ecologico, e gli scienziati ricordano quanto una stretta sulla carne – in particolare quella bovina – sia fondamentale per ridurre le emissioni di gas serra – fino a 110 milioni di tonnellate annue in meno – e quindi anche i cambiamenti climatici.

    Mentre gli esperti giudicano inevitabile, in un futuro prossimo, questo tipo di politica fiscale, seguendo questa visione, a lungo termine, le alternative alla tassazione sembrerebbero essere:

    1. una forma di progresso tecnologico in grado di ridurre fortemente le emissioni degli allevamenti;
    2. la diffusione di prodotti di origine vegetale sostitutivi della carne.

    Anche se il quadro appare lontano dalla realtà attuale, mostrando tratti quasi fantascientifici, di tasse sulla carne rossa si parla da tempo, e in termini piuttosto concreti.

    Tasse sulla carne rossa già proposte in Danimarca

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    Non è la prima volta che l’idea di introdurre una tassa sulla carne rossa trova spazio nel dibattito internazionale. Questa possibilità, infatti, è già stata considerata attentamente in Germania, Danimarca e Svezia, mentre il governo cinese nel 2016 ha ridotto del 45% il consumo massimo raccomandato di carne. In Danimarca, nello specifico, il Comitato etico nazionale nel 2016 aveva ipotizzato un’imposta su quella bovina, da estendere poi a tutte le carni rosse, soprattutto allo scopo di preservare l’ambiente. Lo studio danese, alla base di queste valutazioni, ha dimostrato che una tassa di circa 2 euro al chilo sulla carne bovina potrebbe ridurne il consumo del 14%, con una conseguente riduzione delle emissioni di gas serra dovute all’alimentazione tra il 20 e il 35%.

    Come avviene per i settori dell’energia e dei trasporti, o per gli alcolici e il tabacco, quindi, secondo l’organismo danese, anche l’alimentazione deve essere trattata e indirizzata con strumenti fiscali. Si tratta, però, di una visione non condivisa e di fatto già bloccata dagli allevatori e dal Consiglio alimentare danese, allarmati per gli effetti economici determinati da una contrazione dei consumi.

    Coldiretti dice no alle tasse sulla carne rossa

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    Anche in Italia l’idea di tassare la carne rossa – attualmente lontana dal dibattito politico – ha suscitato reazioni di netta disapprovazione, a partire da quelle – facilmente prevedibili – degli allevatori. Secondo Coldiretti, infatti, questo balzello colpirebbe il 93% degli italiani, infierendo in un momento già difficile sul piano economico, peraltro in un Paese dove il consumo di vegetali e l’attenzione per la dieta sono in crescita. Una dieta ben bilanciata andrebbe strutturata in base a un equilibrio nutrizionale complessivo, e non accanendosi su specifici alimenti, affermano gli allevatori. In altre parole, non esisterebbero cibi sani o nocivi, ma solo diete più o meno salubri.

    L’associazione ricorda anche il calo – già in atto – dei consumi di carne nel nostro Paese, che si attestano a 79 chilogrammi pro-capite, un dato tra i più bassi in Europa. I danesi ci superano nettamente, con 109,8 chilogrammi, così come i portoghesi (101 kg), gli spagnoli (99,5 chilogrammi), i tedeschi (86 kg) e i francesi (85,8 kg). Ancor più lontane sono le cifre degli USA, dove, secondo il Dipartimento statunitense dell’Agricoltura, il cittadino medio nel 2018 avrebbe consumato addirittura 222,2 kg di carne.

    In Italia, oltretutto, da tempo è in atto un’importante svolta verso la qualità, con il 45% dei cittadini che privilegia le produzioni nazionali. In netta crescita, inoltre, l’acquisto di carni con marchio Dop, Igp o altre certificazioni di origine e quelle di razze storiche italiane, come abbiamo visto nel nostro approfondimento sull’allevamento estensivo (al pascolo), sempre più diffuso nelle fasce collinari e montuose. Questa attenzione per la qualità, perdipiù, si è diffusa insieme alla conoscenza dei diversi tagli, oltre che alla consapevolezza sul benessere degli animali e sulle diverse metodologie zootecniche.

     

    Come negli altri casi accennati, dove le tasse sulla carne rossa hanno trovato un muro nelle abitudini e nel tessuto economico a esse associato, anche in Italia questo strumento fiscale è lungi dal diventare realtà, e al momento non risulta nemmeno in discussione.

     

    Cosa ne pensate della possibilità di introdurre delle tasse sulla carne rossa?

     

    Fonti:

    Coldiretti
    Plos One
    The Danish Council on Ethics

     

    Matteo è nato a Bologna e vive a San Giorgio di Piano (Bo), è giornalista, sommelier e assaggiatore di olio d'oliva, ha collaborato con il Dipartimento di Scienze e Tecnologie agro-alimentari dell'Università di Bologna. Per Il Giornale del Cibo si occupa di attualità, salute, cultura e politica alimentare. Apprezza i cibi e le bevande dai gusti autentici, decisi e di carattere. A tavola ama la tradizione ma gli piace anche sperimentare: per lui in cucina non può mancare la creatività, "perché è impossibile farne a meno!"

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