Il Manifesto Della Cucina Nazionale Italiana Di Martino Ragusa

Adriana Angelieri

Fotomontaggio in cui Martino vola sui tavoli

di Martino Ragusa

1. La cucina nazionale italiana non esiste. 

Non esiste una cucina nazionale Italiana. Ce ne possiamo rendere conto con una semplice associazione di idee: se pensiamo all’Emilia viene in mente la cucina del burro e della carne. Ma se pensiamo alla Liguria, anch’essa regione del nord e addirittura confinante con l’Emilia, viene in mente la cucina dell’olio, del pesce e delle verdure. Cucina continentale e cucina mediterranea, dunque, si incontrano nello stesso ambito del nord Italia. Ma è difficile parlare anche di una cucina regionale. Restando in Emilia-Romagna, basta varcare il fiume Sillaro per passare da una cucina emiliana del burro, del maiale e delle lunghe cotture in umido, alla cucina romagnola dell’olio d’oliva, del pesce, del castrato e della brace. In Lombardia non accadrà mai che un mantovano avvezzo ai piatti della bassa padana e della cucina gonzaghesca senta come propria la cucina d’alta montagna dell’arco alpino. Le Marche, poi, sono una vera e propria confederazione gastronomica: a nord sono influenzate dalla Romagna, a sud dall’Abruzzo a ovest da Umbria, Toscana e Lazio e a est dal mare, mentre solo nel centro (che corrisponde al territorio di Macerata) si trova quella che viene indicata come la più autentica cucina marchigiana. Questi sono solo alcuni esempi che dimostrano quanto dubbia sia la stessa definizione di cucina regionale. Oltre alle 20 regioni ufficiali, poi, ci sono le tante microregioni italiane fiere della loro identità gastronomica ma difficilmente collocabili all’interno di una singola regione. La Lunigiana, per esempio, è allo stesso tempo Liguria, Emilia e Toscana, come dire che è tutte e tre e nessuna delle tre. Lo stesso si può dire per il Montefeltro, la Garfagnana, il Sannio e tanti altri territori a cavallo di due o più regioni dalle quali traggono tradizioni gastronomiche per farle convivere o per ibridarle. Infine ci sono territori interni a un’unica regione che vantano una gastronomia talmente peculiare da non potersi identificare tout-court con quella della regione di appartenenza, come la Valtellina in Lombardia, il Salento in Puglia, la Carnia in Friuli, le Langhe in Piemonte. Insomma, l’Italia dei cento comuni e dei mille campanili è una Torre di Babele gastronomica con una cucina capace di mutare aspetto a ogni dozzina di chilometri. Una situazione estremamente stimolante per viaggiatori, studiosi e buongustai, ma poco incoraggiante se si tratta di definire cosa sia la cucina italiana. Al momento, forse, l’unica definizione in grado di descrivere come stanno le cose e capace di dimostrare la non contraddittorietà del definito è quella di “Cucina locale italiana”. Se per noi italiani è difficile pensare a una cucina nazionale italiana unitaria, non è così per gli stranieri che invece sembrano avere le idee molto chiare sulla nostra identità gastronomica. Per loro le icone del mangiare all’italiana sono più o meno: pizza, maccheroni, spaghetti, ravioli, salame, parmigiano, risotto, chianti, espresso e cappuccino. Ma vanno ricordati anche gli “spaghetti alla bolognese”, un piatto-fenomeno sul quale vale la pena soffermarsi. Noi italiani gli spaghetti li mangiamo con tanti condimenti, ma non certo con il ragù alla bolognese, con il quale preferiamo una pasta all’uovo possibilmente fresca come le tagliatelle. All’estero e nei ristoranti turistici italiani, invece, prosperano gli spaghetti alla bolognese, un piatto-simbolo inventato per i turisti con la collaborazione di alcuni ristoratori delle città italiane più battute dal turismo di massa. Grazie a internet è possibile sbirciare in casa d’altri per farci un’idea di come gli stranieri vedono noi italiani e, nella fattispecie, la nostra cucina. A questo innocente spionaggio si presta molto bene il sito anglofono www.videojug.com, un grosso portale di successo specializzato soprattutto in video-ricette di cucina. Basta cliccare su “How to make Spaghetti Bolognaise” per rimanere allibiti: fra le tante stranezze, il ragù viene cotto nel forno e aromatizzato con un imprevedibile origano, il piatto pronto viene poi finito con una generosa manciata di parmigiano grattugiato e… una cascata di prezzemolo crudo. Possiamo storcere il naso, ma dobbiamo renderci conto che gli “Spaghetti Bolognaise” sono un sincretismo tra due forti simboli della cucina italiana: gli spaghetti, che non hanno bisogno di commenti, e la città di Bologna, universalmente nota come “città dove si mangia bene” e considerata quasi la patria della cucina italiana. Anche quello dell’origano è un sapore-simbolo per via della pizza, e agli stranieri importa questo, non controllare se in Italia lo mettiamo nell’insalata di pomodori piuttosto che nel ragù. Anch’esso è come un piccolo tricolore e come tale può essere piazzato su qualsiasi piatto italiano. Il successo degli spaghetti alla bolognese all’estero, comunque, è straordinario. Soprattutto nella versione “in scatola”. Una recente ricerca del quotidiano “La Repubblica” ci informa che gli inglesi ne consumano 670 milioni di scatole all’anno, come dire che per ben due volte alla settimana ogni inglese è convinto di mangiare italiano aprendo una di quelle scatole e magari accompagnandola con un cappuccino. Abbiamo tutto il diritto di rimanere perplessi. Ma anche il dovere di domandarci se non sia un po’ colpa di noi italiani che non abbiamo saputo fare una comunicazione efficace sulla nostra vera cucina nazionale. Anche da fenomeni come questo, comunque, possiamo imparare. L’anonimo chef straniero ha sbagliato il risultato, che non risponde al vero gusto italiano, ma è stato corretto nel metodo: riunire in un unico piatto sapori-simbolo italiani, dal ragù alla bolognese del nostro settentrione agli spaghetti che evocano Napoli, con la partecipazione dell’immancabile parmigiano e la partecipazione straordinaria del meridionalissimo origano. E’ legittimo immaginare che se al posto dell’anonimo chef d’oltralpe, inventore degli spaghetti alla bolognese si fosse impegnato in questo senso e con lo stesso metodo uno chef italiano, forse oggi potremmo essere noi a proporre un piatto-simbolo al resto del mondo. Non è impossibile. Una cosa simile è successa negli anni sessanta quando Giuseppe Cipriani inventò il Carpaccio, ormai conosciutissimo all’estero. Più di recente, Gualtiero Marchesi con il suo Raviolo Aperto ha dato un altro magnifico esempio da seguire.

2. Gastronomia Domestica.

Per la verità molti nostri chef si sono messi già al lavoro, più o meno consapevolmente, per scrivere il ricettario della cucina nazionale italiana (e non si tratta della “ nuova cucina italiana”), che potrà convivere in tutta serenità con la cucina tradizionale, viste le differenze che emergeranno anche da questo scritto. La cucina nazionale che si va delineando è soprattutto ecumenica, caratterizzata dall’incontro di prodotti di ogni parte d’Italia; è quindi molto più agile di quella locale ma mantiene la ricerca entro i limiti di un’italianità sempre riconoscibile, evitando di porsi in posizione di rottura rispetto alla tradizione e lasciando alla cucina di pura ricerca le audacie di modello spagnolo. Nel loro lavoro di rinnovamento e ri-costituzione, però, i nostri chef sono lasciati soli con la loro creatività e il loro buon senso. Non dispongono di un’autorità super partes che possa soccorrerli con linee guida, come avviene per esempio in Francia dove l’identità della cucina è da sempre una seria questione di Stato. Questo non vuol dire che manchino di un solido punto di riferimento che c’è ed è molto più severo di una congrega di dotti accademici. C’è, ma non è esterno, perché è quanto hanno interiorizzato della cucina delle loro mamme, nonne e zie. Non importa poi quanto i ricordi siano autentici o idealizzati, veri o falsi. Sappiamo bene che la realtà soggettiva-interiore non coincide mai esattamente con quella oggettiva-esteriore, ma è quello che riesce a rimanere una volta che sono trascorsi gli eventi reali. Ed è in grado di insediarsi nella mente anche per tutta la vita, nel caso quell’esperienza meritasse di diventare costitutiva della personalità. Nel caso di chi fa della cucina il proprio lavoro, abbiamo ragione di ritenere che le esperienze di gastronomia domestica dell’infanzia si integrino in modo costitutivo a formare il Super-Io professionale del cuoco. Sono proprio tali esperienze a costituire quell’accademia interiore in grado di fornire linee guida e alla quale rendere conto. Come avviene sempre in tutte le vicende riconducibili al Complesso di Edipo, i guai cominciano nel momento dell’emancipazione e dell’autoaffermazione. L’atteggiamento emotivo del figlio in evoluzione è necessariamente ambivalente: non può odiare e uccidere il genitore senza, allo stesso tempo, amarlo e desiderare di tenerlo in vita più di ogni altra cosa. Non può proporre il nuovo senza affrontare il vecchio per distruggerlo. Ma deve anche _ incontrare amorevolmente quel vecchio, soccorrerlo salvarlo e conservarlo. Tutto questo è irrazionale, ma non per il meccanismo psicologico dell’ambivalenza affettiva: in Italia, dunque, la cucina è una madre generosa e autorevole. E ciò è talmente vero che, laddove le tradizioni di gastronomia domestica e il mammismo sono meno potenti, gli chef nascono già orfani, emancipati e liberi di lavorare alla costruzione della loro identità senza troppi controlli interiori. In questi casi, il prezzo da pagare per l’affermazione di tale identità è, però, molto più alto, mancando quella censura interna che è molto più severa ed efficace della critica esterna. Per tutto ciò lo chef creativo italiano è condannato (ma forse piacevolmente) a camminare su un filo, sospeso tra tradizione e innovazione: crea, inventa, osa, ma poi, inesorabilmente, arriva per lui il momento più temuto, quello del confronto con la sublime semplicità di un risotto con lo zafferano, con l’equilibrio insuperabile di un piatto di spaghetti al pomodoro e basilico. E deve poterlo reggere. Ho visto tanti celebrity-chef d’avanguardia cenare con un piatto di pasta al sugo alla fine del loro lavoro, proprio come quando erano figli di famiglia, con una madre che proponeva e imponeva la sua cucina. Quasi fosse un rito riparatore della trasgressione appena compiuta, una riconciliazione con la madre-cuoca interiorizzata, un rifornimento di energia affettiva per il successivo slancio creativo.

3. La nuova cucina nazionale è neo-tradizionale e glocale.

Procedendo come i funamboli sul filo dell’ambivalenza, i cuochi italiani hanno individuato la strada della rivisitazione dei piatti tradizionali con la sperimentazione di nuovi accostamenti mai tentati tra i prodotti di luoghi italiani anche molto lontani tra loro. L’operazione si iscrive nella recente “scoperta del territorio” che ha portato alla conoscenza, valorizzazione e circolazione per tutta Italia dei nostri innumerevoli prodotti di nicchia. Ne è conseguita un’espansione mentale e pragmatica del territorio che dalla dimensione locale si è espanso fino a quella nazionale. Il prodotto locale ha cominciato a circolare e ad essere conosciuto, usato e apprezzato lontano dal luogo di origine, è diventato globale o “glocal” (secondo la definizione di Russel Robertson). Occorre però specificare che in questo caso si tratta di una miniglobalizzazione perché il “globale” cui mi riferisco è delimitato dai confini nazionali con solo qualche concessione molto ragionata al vero esotismo, inteso sia in termini di prodotti, che di procedure e concezioni del pasto. Come si diceva, raramente l’innovazione è proposta come alternativa distruttiva della tradizione. Si tratta piuttosto di riletture sprovincializzate delle ricette locali, capaci di convivere con queste come con la cucina di pura ricerca, e con nessuno che possa giustificatamene gridare all’iconoclastia. Almeno questo è quanto ho potuto constatare di persona durante un viaggio di due anni netti attraverso i ristoranti di tutta Italia. I piatti che vorrei costituissero la cucina nazionale italiana li ho già incontrati e assaggiati in tutta Italia. Sono piatti neo-tradizionali, caratterizzati da una ricerca a trecentosessanta gradi ma mai estrema, su prodotti, accostamenti, metodi di cottura nuovi e tradizionali dimenticati e criticamente rivisitati. Per esempio, i cuochi meridionali ormai usano molto volentieri la pasta fresca all’uovo e quella ripiena di tradizione settentrionale, il riso di nicchia, l’aceto balsamico tradizionale di Moderna e Reggio Emilia, il Parmigiano Reggiano Stravecchio, il Bitto e il Castemagno. Ovviamente questi prodotti vengono coniugati con non poco lavoro di ricerca a quanto offre il sud. Allo stesso modo, i loro colleghi del nord hanno cominciato a usare la pasta di grano duro artigianale, caciocavalli, bottarghe di muggine e di tonno, i ricci di mare, gli oli dei frantoi a sud di Napoli e il sale delle saline trapanesi. Anche i metodi e gli strumenti di cottura sono entrati virtuosamente in un circuito di scambio: al sud sono state scoperte le virtù della pietra ollare, al nord le cotture lentissime in olio extravergine di oliva. E così via, lungo una linea vincente perché è aderente al gusto italiano, è attenta più alla bontà delle materie prime che alla complessità delle procedure e finalmente vede lo chef calato nel ruolo di gastronomo.

4. Dopo Artusi.

I cuochi italiani più o meno consapevolmente impegnati in questo nuovo Risorgimento sembrano riprendere, con i fatti, l’opera di Pellegrino Artusi, che nel suo celeberrimo “Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” del 1891 realizzò la prima sintesi della cucina italiana. L’”Artusi” è un vero e proprio tentativo di formulazione di una cucina nazionale fondata sullo scambio interregionale senza il sacrificio delle identità locali. Proprio quello che noi auspichiamo adesso, riprendendo il discorso là dove si era interrotto con l’intento di renderlo il più possibile completo e di colmarne le tante lacune. l’Italia unitaria rappresentata dalle ricette di Artusi, infatti, è pesantemente parziale: ha per epicentro un triangolo tosco-emiliano-romagnolo i cui vertici sono Bologna, Firenze e Forlimpopoli e si estende solo alle città che il gastronomo romagnolo conobbe viaggiando in diligenza o con il treno. A nord fino a Trieste e Torino, a sud fino a Napoli. Nel libro non figurano ricette di Marche, Abruzzo, Puglia, Basilicata, Calabria, Sardegna, né vengono citate tali regioni. E’ un’Italia con un sud che si ferma a Napoli, con l’eccezione della Sicilia che compare con tre piatti. E’ chiaro che bisogna completarla.

5. Il cuoco bricoleur.

Un cuoco come quello finora descritto incarna la figura del bricoleur di Claude Lévi- Strauss, che lavora per trasformare l’esistente per riorganizzarlo senza distruggerlo, figura dallo stesso Lévi-Strauss contrapposta a quella dell’ingegnere che guarda subito avanti e punta direttamente all’innovazione sulla base di un progetto studiato a tavolino. Il bricoleur, per prima cosa si guarda intorno e indietro, si concentra su quello che vede e incontra. Studia il suo uso originario e immagina un uso nuovo e magari impertinente, cioè non-pertinente all’uso consueto, lavora sull’ esistente e sul già fatto, per riproporlo diverso e migliorato in un’ottica squisitamente evoluzionista. Ma non sa già esattamente cosa produrrà; può intuirlo, cercare di prevedere gli effetti, immaginare un possibile risultato. Ma in pratica sperimenta al momento. I cuochi italiani, ai quali mi sono finora riferito, incarnano l’immagine del bricoleur di Levi- Strauss. Osservano, raccolgono, assemblano, sperimentano e infine investono sui loro risultati con una buona quota di rischio personale. Il cuoco-bricoleur assomiglia molto alle madri di famiglia che soprattutto nel nostro passato si adoperavano per far quadrare il conto dei pasti quotidiani. La differenza è che nel loro caso il bricolage era dettato più dalla necessità che dalla volontà di sperimentazione e di reinvenzione. Le cucine povere, le cucine di guerra e di sopravvivenza sono sempre state laboratori di ricerca nelle quali l’attività di bricolage era intensissima, perché unendo un ingrediente insolito a uno monotono se ne ricavava un piatto finalmente nuovo e più gradito. Si pensi ai tanti condimenti che hanno variato in mille modi la solita polenta dei contadini del nord Italia. O, nel sud, l’imitazione dell’alimentazione ricca, con la sostituzione di un ingrediente costoso con un equivalente povero. Per esempio, le “Sarde a Beccafico” siciliane che imitano nella forma i pregiati uccelli una volta esclusivi delle mense aristocratiche. Oggi le motivazioni della ricerca sono cambiate, non sono più economiche ma attengono alla voglia di sperimentare e inventare. Il campo di ricerca di oggetti idonei al bricolage, poi, si è esteso moltissimo: parte dalla cucina, dall’orto o dal mercato sotto casa e arriva ad abbracciare tutto il mondo. Ma è sempre bricolage, esattamente come quello di un tempo che ha inventato la nostra attuale tradizione; anche se oggi bisogna fare i conti con un rischio in più: godere, infatti, delle citate numerosissime nuove possibilità può indurre il cuoco bricoleur a correre più che mai il rischio dell’assemblaggio disarmonico. Perciò deve paradossalmente lavorare ancora di più per acuire in modo deciso la sua sensibilità, perché con il moltiplicarsi degli ingredienti si è moltiplicato anche il pericolo dell’accozzaglia. In questo caso può soccorrere una metafora musicale e potremmo parlare di cuoco-direttore d’orchestra dotato di un buon orecchio e capace di puntare alla sinfonia sapendo riconoscere le cacofonie nel piatto. Ad ogni buon conto, è proprio da questo lavoro di bricolage intenso che può nascere la cucina nazionale italiana. Tutto sta all’abilità del cuoco bricoleur che deve saper trovare i prodotti italiani giusti e saperli unire con opportune procedure preferibilmente di tradizione nostrana, filologica o rivisitata, ri-destinandoli a strutture finali sprovincializzate e riconoscibili come italiane dalla sensibilità collettiva. Trattandosi di cucina e per esigenza di onestà intellettuale non possiamo qui ignorare, perché sono parecchi e alcuni anche bravissimi, i “cuochi-ingegneri”, quelli cioè che, per richiamare Levi-Strauss, puntano direttamente all’innovazione. A differenza del bricoleur si prefiggono un risultato preciso, cercano la scoperta pianificandola “a priori”. Agiscono con un metodo squisitamente scientifico: sulla base di un progetto, applicando alla cucina principi e metodi della fisica, della chimica e di altre scienze esatte. Basta pensare alla cucina molecolare o all’uso di tecnologie e strumenti sempre più nuovi e sofisticati volti alla trasformazione di consistenze e colori. Le materie prime vengono trattate come mai lo sono state in passato: lo stoccafisso diventa un gelato, la verza una candida spuma, le ortiche diventano materia prima per l’estrazione della clorofilla che andrà a colorare nuove consistenze. Ben vengano perché la ricerca è sempre la benvenuta, ma non sono loro che mi vengono in mente quando penso a una cucina nazionale italiana.

6. Una cucina sana.

Ormai si conosce molto degli effetti degli alimenti sulla salute. Pur senza medicalizzare la tavola, è irrinunciabile perseguire il principio di una cucina che sia apportatrice di salute e non un pericolo per essa. La rivisitazione della tradizione è un’ottima occasione per alleggerire i piatti là dove ce ne fosse bisogno. In Italia abbiamo la fortuna di avere dalla nostra parte abitudini alimentari, prodotti giusti e clima. La cucina nazionale italiana deve saper trasmettere un messaggio preciso di salubrità.

7. Esotismi.

Esattamente come fa l’odierno, anche l’antico bricoleur si è dovuto cimentare con nuovi ingredienti. La patata, il mais, il pomodoro, il peperone, il peperoncino e prima ancora il riso, la melanzana, gli agrumi e tanti altri cibi e condimenti erano esotici come oggi lo sono l’igname e il litchi. Tutti questi prodotti dimostrano quanto sia possibile l’assimilazione e la naturalizzazione, visto che sono diventati pilastri della nostra tradizione. Oggi il cuoco bricoleur dispone del mondo intero, sta a lui individuare quale ingrediente, benché esotico, sarà capace di ben figurare in un piatto italiano e acclimatarsi nella nostra cucina. Per esempio, nella sua opera di bricolage potrà decidere di accostare la salsa di soia al pesce. Mentre nello stesso momento, dall’altra parte del mondo, un suo collega giapponese compirà la stessa operazione abbinando al medesimo pesce il nostro aceto balsamico tradizionale di Modena e Reggio. Chi avrà fatto il bricolage migliore? Come al solito sarà quel galantuomo del tempo a giudicare. Perché si può fare di tutto, ma non si può decidere per quanto tempo quel “tutto” che si è fatto riuscirà a sopravvivere. L’Italia è talmente generosa di prodotti d’eccellenza che vale la pena riflettere bene prima di usarne uno esotico che magari ha già un equivalente nostrano di qualità mille volte superiore. E non solo perché c’è il pericolo reale che il nuovo scacci il vecchio (così è successo al miglio soppiantato dal mais nella polenta, alla rapa sostituita dalla patata ecc) ma perché è molto probabile che quel piatto in breve tempo sarà tranquillamente dimenticato vanificando il lavoro di ricerca. Oltre alla sua intrinseca bontà, la prima qualità che deve avere un prodotto esotico è quella di non essere un succedaneo di un prodotto nostrano migliore: ozioso, quindi, usare la curcuma per colorare di giallo i cibi quando abbiamo lo zafferano purissimo dell’Aquila molto, ma molto più pregiato; la seconda è che sia almeno vagamente compatibile con il gusto italiano, quindi che abbia un minimo di possibilità di carriera nella nostra cucina. A questo proposito non va dimenticato che l’Italia non ha un passato coloniale e la nostra cucina tradizionale ha meno familiarità con i prodotti esotici di quanto ne abbiano Francia, Inghilterra e Spagna.

8. Il pranzo all’italiana.

Il pranzo all’italiana, con primo e secondo come portate principali ed eventuali antipasto e dessert, nei ristoranti è affiancato sempre più spesso dal menu-degustazione composto da numerosi, piccoli assaggi. La cucina nazionale italiana non può riconoscersi in una degustazione che annulla l’ordine delle portate e la loro importanza, che cancella le differenze tra dolce e salato “ex abrupto”, come se fosse veramente una novità senza tenere conto della lunga tradizione italiana in fatto di preparazioni in dolceforte e in agrodolce. Finger food, snack, tapas, morphings, ecc. hanno tutto il diritto di farsi apprezzare e degustare, ma non si può predicarli come sostituivi del pasto all’Italiana. Va comunque tenuto conto dell’evoluzione delle abitudini. E ben venga una struttura del pasto come quella che ormai si va sempre più affermando e che vede come tratto principale la restaurazione dell’antipasto, l’ex grande assente della cucina italiana, a parte il Piemonte. L’antipasto è ormai da considerare una portata principale, è il biglietto da visita dello chef e sua piccola, gradita fiera delle vanità. Viene sempre più proposto “d’ufficio” in numerose piccole porzioni che assomigliano a un mini-menù degustazione, senza però la pretesa di proporsi come pasto esaustivo. E’ chiaro che un antipasto così concepito non ha niente a che vedere con il vecchio “antipasto all’italiana” di salumi nazionali. Gli insaccati compaiono, ma solo quelli di nicchia (anche di pesce) accostati a piccole specialità da forno e spesso “interpretati” in cucina con creme di formaggi locali, polentine, verdure, frutta. Molti assaggi sono ex secondi accorpati negli antipasti dopo l’inevitabile riduzione delle porzioni. Un antipasto così strutturato dà di solito la possibilità di accedere a un’altra sola portata principale o un primo o un secondo. Si spera un primo, visto l’attaccamento degli italiani alla pasta, e visto che i secondi sono già stati citati nell’antipasto. Di solito segue il dessert. Questa è una formula ancora aderente al pasto italiano, del quale è un’evoluzione e può essere alternativa al pranzo tradizionale.

9. Le denominazioni dei piatti.

I piatti italiani godono sempre più di lunghe denominazioni descrittive. I vantaggi sono quelli dell’informazione puntigliosa al cliente su ciò che mangerà. Ma non mancano gli svantaggi, a cominciare dall’impossibilità di memorizzare una denominazione così lunga. Con due conseguenze: l’impossibilità di chiedere una seconda volta quello stesso piatto e la difficoltà di accesso di quella preparazione in un repertorio condiviso. La cucina diventa qualcosa di effimero, di legato all’esperienza di una sola volta e non può più essere riproposta da altri, né storicizzata. E questo mi sembra un danno gravissimo. Probabilmente il Carpaccio, piatto d’autore e stabilmente insediato tra le ricette italiane da qualche decennio, non avrebbe avuto la medesima fortuna se avesse avuto un lungo nome descrittivo al posto di quello che ha: sintetico e altamente evocativo di italianità. Pesante anche la cancellazione proditoria delle denominazioni tradizionali a vantaggio di nuovi e articolati nomi-descrizioni: per esempio, i tortellini che in caso estremo diventano: Piccoli fagottini di sfoglia gialla sottile ripieni alla moda della bassa emiliana La soluzione di buon senso sembra quella di lasciare in pace le denominazioni tradizionali e individuare nomi o creare neologismi sintetici per i nuovi piatti – come nel caso del Carpaccio – magari accompagnati da un sottotitolo che a quel punto può essere lungo quanto si vuole.

10. Il gusto italiano.

L’ultimo paragrafo riguarda un argomento sfuggente e ineffabile. Come si può definire il gusto italiano? E prima ancora, come si può definire il gusto? Di certo non è solo quanto attiene alle papille gustative e alle aree del cervello deputate a elaborare le afferenze sensoriali in arrivo da queste. Il gusto, sia quello personale che quello collettivo, è il punto di arrivo momentaneo – perché in continua evoluzione nel tempo e nello spazio – di una cultura comune, di percorsi antropologici, di situazioni geografiche, di vicende storiche, di condizioni socioeconomiche, di immigrazioni più o meno permanenti e di temporanee emigrazioni turistiche. E poi di una serie di esperienze socialmente condivise determinate da tradizioni, abitudini, necessità, mode, emozioni, preferenze, ritualità, religioni. Così definito, il concetto di gusto risulta assai utile al nostro ambizioso progetto di definire una “cucina nazionale unitaria”; le due parole “cucina italiana” hanno, infatti, un alto potenziale simbolico, emotivo, evocativo e sono idonee a generare associazioni di idee immediate ma che spesso conducono a specialità locali (pizza napoletana, lasagne emiliane, fiorentina, cassata siciliana, risotto alla milanese): è l’ennesima prova che le cucine italiane sono tante; ma le differenze forse sono meno di quanto noi italiani – gastronomicamente contradaioli- ne possiamo percepire. In verità, a sottendere tutte le cucine locali c’è un denominatore comune esteso dalla catena alpina fino a Lampedusa. E’ l’atteggiamento italiano verso il cibo. O, se vogliamo, il “Gusto Italiano”. Per esempio: nelle case di Lampedusa e di Aosta si mangeranno cibi diversi, ma l’atteggiamento del cuciniere di Aosta nei confronti della pasta sarà molto più simile a quello del cuciniere lampedusano, distante duemila chilometri, rispetto all’atteggiamento del cuciniere francese che sta cucinando a un tiro di schioppo. Entrambi, l’aostano e il lampedusano, porranno una speciale cura nella scelta del tipo di pasta (secca, o fresca, all’uovo) e del formato da abbinare al sugo, la considereranno come piatto a se stante e non un contorno, ci berranno sopra preferibilmente il vino e soprattutto staranno entrambi molto, molto attenti ai tempi di cottura.

Proverò a sintetizzare in 12 punti i possibili tratti costituitivi del gusto nazionale italiano:

  1. La centralità della pasta.
  2. La centralità del vino e l’attenzione ai corretti abbinamenti
  3. L’attaccamento al pasto all’italiana, fondato sulle due portate principali: il primo e il secondo.
  4. La preferenza per il pasto caldo (anche come conseguenza dell’amore per pasta, riso, polenta e minestre).
  5. L’irrinunciabilità del pane. Proposto in tante forme e ricette quanti sono i campanili e ovunque amato.
  6. L’amore per i formaggi, confortato dalla sapienza dei casari italiani che ne propongono numerosissime qualità.
  7. La passione per l’olio extravergine di oliva. Prodotto in tutte e 20 le regioni italiane, compresa la Valle d’Aosta.
  8. La speciale cura nella scelta dell’ingrediente principale per le preparazioni più amate: la giusta qualità di pomodoro per fare il sugo, di basilico per fare un pesto, di farina gialla per fare la polenta, di riso per fare un risotto.
  9. La valorizzazione del “fresco” e del “fatto in casa”. Va di pari passo con l’attenzione per una cucina sana e la diffidenza verso preparati industriali di scarso valore gastronomico se confrontati ad analoghi casalinghi o artigianali.
  10. Il grande valore relazionale e culturale attribuito cibo.
  11. L’amore per la varietà. Impossibile definire gli italiani come prevalentemente carnivori o vegetariani, ecc. Cereali, carne, pesce, formaggi e latticini giocano tutti ruoli da protagonisti nella mensa italiana.
  12. La ricerca del raggiungimento del massimo risultato con il massimo della semplicità.

Questo è il mio contributo per la costituzione di una cucina nazionale italiana. E’ una proposta ed è aperta. Attende di essere arricchita e migliorata dai cuochi, dai gastronomi, dagli italiani interessati a questo progetto e che hanno qualcosa da dire o da fare perché possa realizzarsi al meglio.

Il Decalogo.

  1. Avere una identità forte, riconoscibile e improntata al gusto italiano. Deve sapersi distinguere dalla cucina locale così come dalle nuove cucine di pura ricerca, dalle cucine straniere e da quelle esotiche.
  2. Individuare come sua massima ispiratrice la cucina tradizionale-locale italiana, povera o ricca, di corte o di popolo o di strada (cucina neo tradizionale).
  3. Ispirarsi al lavoro del cuoco bricoleur. Cioè usare a piene mani il territorio italiano quale massimo fornitore di materie prime (cucina glocale) e attingere ai saperi gastronomici, (procedure, tecniche e metodi di cottura) di tutto il territorio nazionale perché dal vecchio nasca un nuovo ancora migliore.
  4. Ispirarsi alla semplicità, puntando alla valorizzazione dei prodotti ed evitando di nasconderne i sapori con eccessive coperture.
  5. Rispettare la centralità della pasta, dell’olio extravergine di oliva, del pane e del vino.
  6. Rispettare la grande varietà che da sempre distingue la mensa italiana. Cereali, pesci, verdure, carni e frutta devono essere presenti nelle ricette senza preclusioni, per esempio, verso le carni rosse.
  7. Essere una cucina sana. Deve essere attenta ai progressi della scienza dell’alimentazione e della dietologia e deve saperli applicare.
  8. Proporre piatti riproducibili, la cucina è sempre artigianato, a volte di livello talmente alto da somigliare all’arte, ma non è un’opera d’arte e a differenza di questa, un piatto deve poter essere sempre riproducibile da altre persone. Ogni nuovo piatto, deve avere la possibilità di diventare un piatto tradizionale di domani. E deve anche avere un nome storicizzabile e quindi ricordabili.
  9. Tenere in considerazione il pasto all’italiana e non sostituirlo con i menu – degustazione. Allo stesso modo il pasto all’italiana non dovrà essere sostituito da Finger food, snack, tapas, morphings cui va dato il valore di fuori pasto.
  10. Importare dall’estero, vicino o esotico, solamente prodotti che siano armonici con il patrimonio gastronomico nazionale, non in contraddizione con il gusto italiano, che siano assenti in Italia o apertamente superiori a prodotti italiani equivalenti. Lo stesso criterio vale per le tecniche e gli strumenti di cucina.

 

Siciliana trasferita a Bologna per i tortellini e per il lavoro. Per Il Giornale del Cibo revisiona e crea contenuti. Il suo piatto preferito può essere un qualunque risotto, purché sia fatto bene! In cucina non devono mancare: basilico e olio buono.

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