In Guinea-Bissau, le donne custodiscono i semi e tramandano la biodiversità
Preservare e tramandare i semi antichi, per garantire la biodiversità ma anche la sopravvivenza stessa di molte popolazioni: questo è il compito dei “custodi dei semi”. Anzi, in questo caso “delle” custodi dei semi, contadine che si prendono cura dei cereali ancestrali dei Bijagós, isole dell’arcipelago a largo della costa atlantica dell’Africa occidentale e riserva della biosfera UNESCO.
Sono 150, in particolare, le donne che hanno preso parte al progetto Women Keepers of Agricultural Biodiversity Seeds e formate nella cura di queste preziosissime sementi, come si racconta in un articolo del Guardian. Di cosa si occupano esattamente le custodi dei semi e di questa iniziativa – che ci condurrà tra isole sperdute e sacre – vi parliamo in questo articolo.
Chi sono i custodi dei semi?
Prima di parlare del progetto, facciamo un passo indietro e rispondiamo a questa domanda. Mantenere la biodiversità e così garantire la sicurezza alimentare – a fronte di un’agricoltura sempre più monoculturale e minacciata dai cambiamenti climatici – è una sfida complessa e urgente. In questo senso, la preservazione dei semi antichi è fondamentale, e a prendersene cura sono proprio agricoltori definiti veri e propri “custodi dei semi”. Si tratta di persone che si impegnano nel recupero, la riproduzione e la diffusione delle vecchie varietà, riconoscendo l’importanza di proteggere il territorio, le tradizioni e le sementi. In particolare, si dedicano – in alcuni casi da secoli – alla conservazione e al mantenimento della forza germinativa dei semi, allo scopo di sostenere l’autonomia, l’autosufficienza, l’autoproduzione e la sovranità alimentare. Portano avanti un tipo di agricoltura responsabile e sostenibile, ricreando le condizioni utili per permettere al terreno di rigenerarsi e ai semi di adattarsi anche ai cambiamenti climatici, aumentando la loro resilienza. L’obiettivo è sì essere al servizio dell’uomo, ma senza avere un impatto eccessivo sulla natura.
Progetto Women Keepers of Agricultural Biodiversity Seeds
I custodi dei semi – seed keepers in inglese – sono sparsi un po’ per tutto il mondo, creando vere e proprie comunità per portare avanti questa importante missione. Una di queste si trova in Africa occidentale: a largo della costa della Guinea-Bissau esiste un gruppo di remote isole rurali. È l’arcipelago di Bijagós, la cui zona settentrionale è occupata delle Isole Urok, a loro volta composte da tre isole abitate (Formosa, Nago, Chediã).
Queste ultime sono state designate area marina protetta comunitaria dal 2005 e qui abitano circa 3.000 persone, molte delle quali fanno parte del gruppo etnico Bijagó, che rappresenta appena il 2% della popolazione della Guinea-Bissau. Un’area sperduta, fatta di verdi foreste, dove la biodiversità è ancora possibile. Proprio qui, la ONG Tiniguena sostiene da anni il progetto Women Keepers of Agricultural Biodiversity Seeds, per conservare le piante creole e i loro preziosi semi. Stiamo parlando di semi di varietà e specie antiche, che vanno dal mais al riso, fino alle arachidi, che sono stati tramandati di generazione in generazione e costituiscono un elemento vitale per la sopravvivenza di questa popolazione. La particolarità è che queste sementi sono particolarmente resistenti ai parassiti e al clima feroce della regione, sempre più intenso a causa del riscaldamento globale.
Il progetto ha già formato più di 150 donne nella cura dei semi, con 12 donne elette come vere e proprie “custodi di semi”. Tra queste, come racconta il Guardian, c’è Sábado Maio, 70 anni, nata nella tabanka (villaggio) di Canhabaque, su Ilha Formosa. Il suo orto vanta oltre 19 varietà di colture diverse ed è convinta che conservare i semi sia un compito culturale delle donne Bijagós: “Questo è il mio lavoro nella natura. Le donne sono le madri di tutto, quindi le donne si prendono cura dei semi più degli uomini. Le donne sono la terra, gli uomini, il cielo. Le donne partoriscono, gli uomini no, quindi le piante sopravvivono grazie alle donne”.
In moltissimi Paesi l’agricoltura è donna
L’agricoltura in Africa è (anche) una questione femminile. In molti Paesi africani, le donne costituiscono il 60% della forza lavoro nell’ambito agricolo all’interno delle famiglie, come riportato dalla FAO. Le loro responsabilità principali riguardano la coltivazione di ortaggi, la conservazione dei raccolti e la cura degli animali da allevamento, come pecore e capre.
Anche in Guinea-Bissau sono soprattutto le donne e le ragazze a svolgere i lavori pesanti della terra. Molte di queste si occupano da anni proprio della preservazione dei semi, come quelli di pomodorini, zucca, gombo, cetriolo, melanzana, mais, riso, igname e lime. Li lasciano essiccare al sole, poi li mettono in un barattolo asciutto con un po’ di cenere sopra, per tenere lontani gli insetti, e chiuso bene. Hanno imparato da bambine o ragazze, vedendo le proprie madri o dai nonni. Ad esempio, Maio si occupa dei semi tra cui igname dalla pelle rossa, igname di Ginevra, manioca, mais e zucca: “Sono un custode perché ho visto i miei nonni farlo. Conosco l’importanza di avere semi per garantire il nostro modo di sopravvivere”.
Ma secondo Tiniguena, meno dell’1% di queste donne possiede la terra che coltiva, a causa di leggi e costumi che le discriminano. Un decennio fa, la ONG ha percepito che questa preziosa conoscenza della popolazione Bijagó correva il rischio di andare perduta quando si iniziarono a prediligere coltivazioni più redditizie, come gli anacardi che sono andati pian piano a sostituire le palme, che invece nella cultura Bijagó sono fondamentali perché vengono usate in tutte le sue parti – ne derivano vino, olio, frutta, ceste di pesce, corde, stuoie e soffitti. Ma non solo, altro problema ha rappresentato quando nei villaggi sono apparse immondizia e altre forme di inquinamento ambientale.
La ONG è così intervenuta, andando proprio a supporto delle donne: dall’inizio dell’intervento nelle Isole Urok, la diversificazione della produzione alimentare ha aiutato centinaia di donne e le loro famiglie ad acquisire maggiore autonomia e rafforzare la leadership femminile.
Clima e coltivazioni più redditizie minacciano l’agricoltura di queste isole
Tuttavia, lo stato delle cose è minacciato su più fronti. Da una parte, la crisi climatica ha peggiorato la situazione dell’agricoltura in diversi Stati africani. Come abbiamo visto nel nostro approfondimento sull’allarme lanciato dall’IFAD, molte produzioni alimentari che costituiscono lo scheletro della dieta di tantissime delle popolazioni africane sono a rischio a causa dell’aumento delle temperature globali, che causano fenomeni climatici sempre più estremi.
Nelle Isole Urok non è diverso. Come spiegano gli abitanti, quest’area è colpita da piogge abbondanti sempre più frequenti e lunghe nella loro durata. Il custode di semi Sábado Luis vive nella tabanka di Chediã sull’isola di Maio racconta che “quando piove, l’acqua non viene trascinata in mare, rimane sulla terraferma, inonda tutto e questo è problematico per noi, per la nostra sopravvivenza e sicurezza alimentare”. Non solo, come per moltissime altre isole sparse in tutto il mondo, l’arcipelago di Bijagós soffrirà per l’innalzamento del livello: “qualunque cosa accada all’agricoltura, accadrà prima qui”.
Altro problema riguarda invece le coltivazioni da reddito e monocolturali, che minacciano la biodiversità soppiantando varietà più antiche ma meno redditizie, come abbiamo visto parlando del maslin. Ad esempio, la coltivazione degli anacardi – richiesti in tutto il mondo – è quella che preoccupa di più. Come raccontano, questa coltura sta occupando gran parte del suolo disponibile ma “distrugge la terra intorno a esso, prendendo tutte le risorse vicine in modo che non possiamo produrre nient’altro. La radice di questa pianta ha bisogno di molta acqua e dà solo una volta all’anno. È uno spreco di terra”.
Insomma, da questo racconto emerge in maniera chiara come sia fondamentale preservare il più possibile le risorse naturali e le antiche conoscenze, perché alcune popolazioni altrimenti potrebbero non avere futuro.
Fonti:
The Guardian
fao.org
Immagine di copertina di: Yaw Niel/shutterstock.com