cibo sprecato perchè brutto

Quanto cibo viene scartato perché “brutto” per il mercato?

Giulia Zamboni Gruppioni Petruzzelli
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    Quella dello spreco alimentare è una tematica sempre più spesso all’ordine del giorno. Sono molti, infatti, gli approfondimenti degli esperti e gli appuntamenti di sensibilizzazione che animano il confronto attorno al problema del disavanzo del cibo e del suo riutilizzo, nel crescente interesse da parte del pubblico. Tra le ricerche più recenti, quella condotta dall’Università di Edimburgo nel maggio del 2018 e pubblicata online ad agosto, pone l’accento su un aspetto importante, eppure poco noto: spesso il cibo è sprecato perché “brutto”, cioè non conforme ad alcuni standard che fanno parte delle norme europee per la loro commercializzazione. Vediamo allora i risultati dello studio scozzese e cerchiamo di fare chiarezza sui regolamenti dell’Unione Europea, parlando anche delle iniziative nate per recuperare i prodotti esclusi dalla filiera per ragioni estetiche. .

    Cibo sprecato perché “brutto”: prodotti scartati e danno ambientale  

    Lo studio scozzese ha evidenziato il problema degli sprechi agro-alimentari causati dall’applicazione di “standard cosmetici” imposti dall’Unione Europea. Gli autori sostengono che i requisiti estetici comunitari impediscono a una rilevante quantità di prodotti ortofrutticoli di arrivare sui banchi dei supermercati. Non solo, secondo quanto sottolineato dall’indagine, molti dei prodotti scartati rimangono del tutto inutilizzati, finendo così per essere gettati via al primo passaggio della catena produttivo-distributiva. La coltivazione di ortofrutta produce, inoltre, una considerevole quantità di gas serra e questo indipendentemente dal fatto che frutta e verdura vengano poi consumate o meno. In parole povere, quindi, alla quantità di cibo sprecato lungo la filiera agricola si aggiunge anche un inutile contributo al danno ambientale. Ma quali sono, esattamente, i numeri di questo preoccupante fenomeno?

    I numeri dello spreco

    spreco alimentare verdura

    Candus Camera/shutterstock.com

    I dati che emergono dalla ricerca sono piuttosto allarmanti: ogni anno, l’Europa getta via tra i 3,7 e i 51,5 milioni di tonnellate di frutta e verdura considerati “brutti”, di cui 4,5 milioni solo in Gran Bretagna. Il 17% di tutto il prodotto ortofrutticolo destinato al consumo umano viene quindi sprecato direttamente nelle aziende agricole perché giudicato inadatto al consumo. Si tratta di numeri preoccupanti, soprattutto se pensa che 821 milioni di persone al mondo soffrono la fame (dati FAO 2018).

    Tra le varietà di frutta e verdura maggiormente interessate dal fenomeno, la parte da leone – o sarebbe meglio dire da brutto anatroccolo – la fanno le patate che, con circa 7,9 milioni di tonnellate, costituiscono il 55% dei vegetali gettati via ogni anno. Nel mirino anche carote, cipolle e brassicacee (cavoli, rape, etc.): quelle esteticamente inaccettabili vengono eliminate al ritmo di 12 milioni di tonnellate all’anno. Ironia della sorte, proprio patate e carote sono anche tra le principali responsabili delle emissioni di gas serra correlate allo spreco agricolo in Europa e nel Regno Unito. In generale, infatti, su un totale di 426 milioni di tonnellate di CO2e prodotta dal settore agricolo nei paesi dell’Unione, il 5% è legato alle coltivazioni di frutta e verdura buttati a causa del loro aspetto.

    A questo punto, una precisazione è d’obbligo: per quanto siano spesso usati come sinonimi per ragioni di praticità, perdita e spreco di cibo non sono propriamente la stessa cosa. Lo spreco, infatti, è intenzionale, perché dovuto a negligenza, cattiva gestione o legislazioni poco lungimiranti, mentre la perdita di cibo è in genere causata da malfunzionamenti tecnici o infrastrutture inadeguate.

    I requisiti estetici e la regolamentazione Europea   

    verudra brutta

    FotoHelin/shutterstock.com

    Alla base dello spreco e della perdita alimentare, spiegano gli autori della ricerca, ci sono diverse cause. Tra queste, le imperfezioni estetiche e l’eccesso di coltivazioni sono strettamente correlate. Da un lato, gli agricoltori devono rispettare i loro obblighi contrattuali e assicurare il rifornimento di determinate tonnellate di prodotto. Dall’altro, tuttavia, gran parte del raccolto viene buttato a causa dei requisiti superficiali imposti dalle leggi comunitarie. Tali indicazioni, d’altra parte, rientrano in una più generale verifica della salubrità e qualità di frutta e verdura, che ha lo scopo di regolamentare la vendita di prodotti freschi all’interno degli Stati membri e tutelarne i consumatori: l’Articolo 14 del General Food Law Regulation Europeo stabilisce infatti che “gli alimenti a rischio non possono essere immessi nel mercato”. Le norme di commercializzazione applicate dall’Unione Europea servono, pertanto, a definire dei parametri condivisi di classificazione degli alimenti e, come dichiara il Ministero delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo, “hanno lo status di raccomandazioni al fine di agevolare gli scambi commerciali tra i diversi Paesi”.

    verdure confezionate

    Patricia Dulasi/shutterstock.com

    In che modo? Stabilendo dimensioni minime e forme “consentite”, si semplificano passaggi come l’imballaggio e la spedizione: i prodotti risultano del tutto omogenei tra loro, standardizzati appunto, e per questo molto più facili da impacchettare rispetto ad analoghi frutti e ortaggi di proporzioni diverse o inconsuete. Se, dunque, l’esistenza di determinati criteri a livello legislativo è da considerarsi un bene, il problema dello spreco legato all’applicazione delle medesime leggi è un effetto collaterale che non è possibile ignorare. E l’Unione Europea, avvisano gli scozzesi, non è certo l’unica responsabile del fenomeno.

    Gli altri attori in campo: la filiera dei pregiudizi  

    Rivenditori, supermercati e clienti finali sono gli altri responsabili dello spreco agroalimentare legato a ragioni estetiche. Oltre ai parametri nazionali e internazionali, infatti, lungo la filiera produttiva e distributiva vi sarebbero numerose manifestazioni di pregiudizi arbitrari o legati a ragioni commerciali.

    I rivenditori per primi sono autori di una scelta d’acquisto basata su criteri superficiali che non tengono conto del fatto che frutta e verdura “brutti” possono essere facilmente processati: inguardabili carote possono essere trasformate, ad esempio, in tenere carote baby.

    Da non sottovalutare, poi, l’influenza dei supermercati: in un sistema commerciale oligopolistico e dispari, in cui cioè i punti vendita sono concentrati nelle mani di poche grandi catene rifornite da tanti piccoli produttori agricoli, la proliferazione di ulteriori, presunti, standard qualitativi è una realtà difficile da contrastare.

    Infine, i consumatori che poco, se non per nulla, abituati a vedere frutta e verdura “anormale”, sono portati di conseguenza a scegliere ciò che risulta familiare, assecondando il principio che “bello è anche buono”. A questo vanno aggiunti fattori di comportamento inconsci come la pigrizia di dover lavorare il prodotto prima di poterlo mangiare (ad esempio eliminando un’ammaccatura), e l’idea che non valga la pena spendere soldi per qualcosa che non sia apparentemente perfetto. Tutto questo non fa altro che portare ad uno spreco di cibo per lo più evitabile, ad ogni livello della catena.

    Frutta e verdura non sono certo le uniche categorie di alimenti vittime di spreco: secondo il Boston Consulting Group sono 1.6 miliardi le tonnellate di cibo buttato ogni anno, circa un terzo di quanto prodotto a livello globale. Di questi, 500 milioni di tonnellate sono sprecate solo nella fase di produzione, altri 350 milioni nella fase di stoccaggio e quasi altrettanti in quella di consumo. In tutti e tre questi step, frutta, verdura e ortaggi costituiscono la fetta più consistente.

    standard estetici cibo

    EQRoy/shutterstock.com

    Spreco alimentare: cosa si può fare per evitarlo?  

    Fortunatamente le proposte tese a migliorare la situazione sono molte e arrivano da più parti. Gli autori scozzesi suggeriscono di intervenire sui tre anelli della catena, produttori, rivenditori e consumatori; mentre il BCG ha costruito un modello che si basa su 13 azioni specifiche che possono essere messe in pratica lungo la filiera. Non mancano poi le iniziative private e pubbliche, e i provvedimenti legislativi che lavorano nella stessa direzione. Tra i casi più rilevanti in Italia rientra sicuramente il progetto Non spreco perché, nato a seguito della recente approvazione della Legge Gadda, che mira alla riduzione drastica degli sprechi e al recupero degli alimenti ancora commestibili.

    A livello europeo, non si può non citare la Francia, vera pioniera delle misure antispreco e prima tra i paesi comunitari a stabilire l’obbligo per i supermercati di ricollocare i prodotti in scadenza o invenduti grazie alla cooperazione con le ONG del territorio. Francese è anche la catena di supermercati Intermarché che nel 2014 ha lanciato la campagna “Inglorious Fruits and Vegetables”: una vera e propria celebrazione della normale bruttezza di carote, arance e simili, presentate in banchi appositi e vendute al 30% in meno. Antesignana del genere, Intermarché ha dato il la a iniziative successive, come le inglesi “Wonky Veg” di Asda e “Perfectly imperfect” di Tesco.

    Ma questi sono alcuni esempi, per lo più locali. Sottoscritta da 193 Paesi membri dell’ONU, l’Agenda 2030, sancisce l’impegno preso su scala globale da aziende, enti e cooperative per il raggiungimento di 17 obiettivi di Sviluppo Sostenibili entro il 2030. Il dodicesimo punto, in particolare, si concentra proprio sulla riduzione delle perdite di cibo lungo la catena produttivo-distributiva, e sul dimezzamento dello spreco globale a livello di vendita e di consumo. Sono moltissimi i soggetti coinvolti in questa ambiziosa impresa e ricerche come quella portata avanti dal team di Edimburgo non possono che contribuire al raggiungimento di una più diffusa consapevolezza e coscienza critica: ingredienti principali di qualunque ricetta antispreco.

     

    In un contesto mondiale in cui l’approvvigionamento di cibo e acqua ancora non è una garanzia per tutti, quello del cibo sprecato solo perché brutto è l’ennesimo paradosso al quale per fortuna è possibile rimediare con l’impegno di tutti, non trovate?

    Giulia è nata a Bologna ma geni, pancia e cuore sono pugliesi. Scrive principalmente di tendenze alimentari e dei rapporti tra cibo e società. Al mestolo preferisce la forchetta che destreggia con abilità soprattutto quando in gioco c'è l'ultima patatina fritta. Nella sua cucina non deve mai mancare... un cuoco!

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