di Andrea Lupo.
Il modo migliore di salvare le razze bovine è quello di portarle in tavola? La storia degli ultimi dieci anni ci dice di sì.
Certo, è un concetto cinico. Ma introduce una problematica seria che è quella della tutela della biodiversità in tutte le sue forme, compresa quella delle razze bovine autoctone italiane.
L’Italia è uno dei paesi europei più ricchi di razze domestiche: secondo la Fao nel nostro Paese ne sono allevate oltre 120 tra bovine, ovine, equine, caprine e suine, ma di queste oltre 80 sarebbero a rischio di estinzione. Su 29 razze bovine autoctone italiane, 11 sono minacciate di estinzione e 25 tra razze e varietà sono già estinte.
Le ragioni di questa ecatombe sono principalmente economiche, diverse razze cosiddette da lavoro si sono trovate improvvisamente disoccupate a causa della meccanizzazione dell’agricoltura, mentre altre semplicemente non garantivano un’adeguata produttività, cioè non davano abbastanza carne e/o latte per rendere redditizio l’allevamento.
Una perdita grave in termini di biodiversità, ma anche di storia e cultura, a cui si è tentato di ovviare nel 1985 con l’istituzione del “Registro Anagrafico delle popolazioni bovine autoctone e gruppi etnici a limitata diffusione” con l’obiettivo di stimolare l’allevamento e salvaguardare il patrimonio genetico delle 19 razze più a rischio. Il registro ammette oggi le seguenti razze: Agerolese, Bianca Val Padana (Modenese), Burlina, Cabannina, Calvana, Cinisara, Garfagnina, Modicana, Mucca Pisana, Pezzata Rossa d’Oropa, Pinzgau, Pontremolese, Pustertaler, Reggiana, Sarda, Sardo-Modicana, Varzese.
Assieme alle altre grandi razze italiane come la Piemontese o le cosiddette 5R (Chianina, Marchigiana, Romagnola, Maremmana e Podolica) questi bovini sono parte della storia italiana. Alcuni presenti da tempo immemorabile, come la Maremmana o la Chianina, raffigurate dall’arte etrusca e romana, altri giunti in Italia con i Burgundi come la Pezzata d’Oropa, derivata si dice dalla Simmental (che non è una scatoletta ma una razza pezzata rossa svizzera), o la Burlina vicentina arrivata con i Cimbri dallo Jutland.
In effetti, per i bovini, il concetto di razza autoctona è abbastanza vago. Una teoria diffusa afferma infatti che le razze bovine oggi esistenti abbiano tutte avuto origine dal progenitore uro (Bos Primigenius) addomesticato in Oriente, per arrivare in Italia prima dalla Grecia e poi, nel V secolo con i barbari, dall’Ucraina (Podolia) dando origine alle razze podoliche che comprendono ad esempio anche la Cinisara, la Modicana o la Romagnola.
Ma proprio all’inizio di quest’anno uno studio coordinato da Giorgio Bertorelle (Università di Ferrara) e David Caramelli (antropologo dell’Università di Firenze) ha determinato la sequenza completa di DNA mitocondriale di un uro vissuto in Italia oltre 11.000 anni fa. Ebbene, questo studio rimette in discussione l’ipotesi secondo la quale tutte le razze moderne europee discendono da antenati addomesticati nel Vicino Oriente circa 10.000 anni fa e successivamente importati in Europa. Suggerisce invece che in Italia e nel Sud Europa, gli uri locali venivano non solo cacciati ma anche, addomesticati e incrociati con varietà domestiche di importazione. L’uro italiano, infatti, è più simile geneticamente a molte delle moderne razze bovine autoctone che all’uro nordeuropeo.
Perché salvarle?
Secondo Bertorelle e Caramelli le nostre mucche hanno fatto gli italiani. E questo nel vero senso della parola, poiché se è vero che siamo ciò che mangiamo, la varietà di carne, latte e latticini ha condizionato non poco la nostra evoluzione.
Per esempio, spiegano, è dimostrato che la diffusione in molte popolazioni umane di mutazioni sul DNA che permettono la digestione del lattosio anche in età adulta è avvenuta con un tipico processo di selezione naturale dovuto al cambiamento di dieta. Capire la storia evolutiva dei bovini significa capire una parte molto importante della nostra storia.
Anche per questo tutelare la biodiversità delle nostre razze domestiche è un dovere.Ma come? Una strada vincente è sicuramente quella della valorizzazione del patrimonio zootecnico legato alle specificità gastronomiche del nostro Paese, che sono una vera ricchezza. Basti pensare che solo negli ultimi dieci anni i consumi di prodotti tipici italiani sono aumentati del 650%, per un valore che ha raggiunto i 7,5 miliardi di euro.
Di questo avviso è anche il presidente della Coldiretti Sergio Marini che lo scorso marzo, a Roma, al convegno “Mucca pazza: dieci anni dopo”, ha affermato che dall’emergenza mucca pazza è nata un’agricoltura rigenerata, attenta alla qualità delle produzioni, alla salute, all’ambiente e alla tutela della biodiversità, come dimostra il fatto che, dopo aver rischiato l’estinzione, si è verificato un aumento record del 39%, negli ultimi dieci anni, dei bovini appartenenti alle cinque storiche razze italiane. Come la Chianina, che ha avuto il più elevato tasso di crescita e può ora contare su 46.553 esemplari, ma anche la Romagnola (15.416 animali), la Marchigiana (52.344), la Podolica (23.370) e la Maremmana (9.212).
Un cambiamento dovuto anche alla consapevolezza di un nuovo modello di consumo che si è arricchito dei valori della eticità, della sostenibilità, della qualità e della sicurezza.
A questo modello fanno riferimento anche i numerosi consorzi di tutela delle razze minori. La Provincia di Vicenza, ad esempio, ha puntato al recupero della Burlina come opportunità di sviluppo economico per gli ambienti agricoli marginali, attraverso la valorizzazione sia del latte, con la trasformazione casearia di prodotti tipici quali il Morlacco, l’Allevo di Altissimo, l’Allevo vecchio e stravecchio, la Caciotta, il Bastardo e il Burlino, che della carne.
Anche l’associazione degli allevatori della Reggiana, ha puntato sul binomio razza – Parmigiano Reggiano, attraverso l’istituzione di un marchio identificativo “Razza Reggiana”, che è ceduto in uso ai produttori interessati, e il riconoscimento del marchio storico di “Vacche rosse” al Parmigiano di altissima qualità così prodotto.
Così come il presidio Slow Food “Provolone del Monaco di vacca agerolese”, una razza bovina campana quasi scomparsa che oggi, molto lentamente, sta tornando nelle stalle locali.
Alla riscoperta del manzo di pozza della Garfagnana – carne di manzo tagliata in pezzi e messa in pozza con una salamoia naturale di erbe aromatiche di montagna e spezie – è invece legato il destino della Garfagnina e soprattutto della Pontremolese, di cui si contano poche decine di esemplari.
Per uno dei paradossi della storia, la salvezza delle mucche italiane si deve forse ad una mucca pazza inglese, che invece di far crollare i consumi di carne, ha rappresentato uno spartiacque tra un modello di sviluppo agroalimentare rivolto al contenimento dei costi ed uno attento alla qualità, all’ambiente e alla sicurezza alimentare, e di cui l’Italia non può che essere leader.