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Caporalato, 1.500 morti in sei anni secondo il British Medical Journal

Angela Caporale
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    Solo durante la scorsa estate sono stati 16 i braccianti morti, in Puglia, mentre si recavano al lavoro nei campi. Tre persone, invece, hanno perso la vita in tre diversi incendi nelle baraccopoli nella Piana di Gioia Tauro che, ogni inverno, accolgono centinaia di migranti, impegnati nella raccolta delle arance spesso in condizioni contrattuali irregolari, come ha denunciato anche il recente rapporto “Terraingiusta” di Medici per i Diritti Umani.

    Il caporalato sfrutta, il caporalato uccide. Questo è quanto emerge anche da un recente studio pubblicato sul British Medical Journal che denuncia: in sei anni sono stati 1.500 i morti imputabili proprio allo sfruttamento lavorativo nel campi in Italia.

    caporalato

    Ververidis Vasilis/shutterstock.com

    Caporalato: 1500 morti in sei anni

    Cinque medici italiani che collaborano con la ong CUAMM Medici con l’Africa e con l’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni (IOM) hanno firmato l’articolo pubblicato lo scorso 29 marzo sul British Medical Journal, che si apre con un parallelismo corroborato dai fatti: nei campi agricoli in Italia si contano i morti come nei campi di battaglia.

    Negli ultimi sei anni, infatti, i medici hanno contato più di 1.500 morti connesse al fenomeno del caporalato e dello sfruttamento in agricoltura. Un destino tragico che colpisce, indistintamente, sia italiani che stranieri, nella maggior parte dei casi persone in difficoltà e senza l’opportunità di mantenersi in altra maniera.

    Come si legge nell’articolo, non si tratta solamente di morti che avvengono nei campi, come nel caso dell’attacco di cuore e di fatica che ha ucciso Paola Clemente, ma tra le cause ci sono anche gli incendi nei ghetti dove i lavoratori si trovano costretti a vivere, gli incidenti sulla strada per il lavoro, gli effetti sul fisico dovuti all’esposizione alle intemperie e ai turni massacranti, gli omicidi veri e propri.

    Molto spesso si tratta di morti che non vengono indagate, rispetto alle quali è difficile trovare la verità e che, altrettanto spesso, restano senza mandante, ma anche senza nome.

    sfruttamento lavoratori agricoli

    David Litman/shutterstock.com

    Braccianti: condizioni sanitarie al limite

    La pubblicazione del British Medical Journal prosegue evidenziando, in sintesi, quali sono le condizioni sanitarie in cui si trovano i braccianti e per cui, spesso, sono costretti a richiedere assistenza. Cuamm è presente in Puglia per fornire assistenza ai braccianti sin dal 2015 e, in questi anni, ha potuto raccogliere dati e informazioni preziose per comprendere quali sono le motivazioni per cui le persone si rivolgono a loro in quanto medici:

    • 46% esaurimento oppure problemi muscoloscheletrici;
    • 19% patologie odontoiatriche;
    • 10% problemi respiratori;
    • 8% patologie della pelle;
    • 4% problemi ginecologici;
    • 4% traumi;
    • 4% patologie cardiovascolari.

    La maggioranza delle persone, quasi l’80%, ha avuto bisogno di una terapia farmacologica, mentre per il 10% dei pazienti è stato necessario intraprendere una cura a medio e lungo termine, nonostante molte di queste persone abbiano difficoltà ad accedere al servizio sanitario nazionale.

    I medici sottolineano, inoltre, che “le condizioni di salute di questa parte della popolazione sono principalmente connesse alle attività lavorative specifiche svolte nei campi, alle precarie condizioni igieniche e di vita, e alla mancanza di una forma di protezione sociale sia nella vita privata che in quella professionale.”

    La necessità di un cambiamento culturale

    La sfida, anche dal punto di vista sanitario, è capire come far sì che nei prossimi sei anni il conto dei morti per caporalato non sia così salato. Si è parlato molto della legge contro il caporalato approvata nel 2016 e del crescente numero di arresti nelle campagne di tutta Italia, che stanno portando a processo i caporali. Tuttavia, secondo gli autori dell’articolo, è necessario anche un cambiamento di tipo culturale che è già stato avviato grazie a persone e a progetti che proprio nei territori più colpiti suggeriscono una strategia differente.

    È il caso, per esempio, di “CaporALT”, lo sportello aperto nel foggiano e gestito da giovani impegnati nel Servizio Civile Nazionale che ha l’obiettivo di fornire informazioni e assistenza ai braccianti, orientandoli nel mondo del lavoro legale, ma non è fortunatamente il solo. Sempre in Puglia Lunaria e Diritti a Sud producono Sfrutta Zero, una salsa di pomodoro “pulita e giusta”, così come è forte l’influenza e il carisma di Yvan Sagnet, presidente dell’associazione No Cap ed egli stesso bracciante che ha guidato la prima rivolta che ha portato il caporalato sulle prime pagine dei giornali, nel 2011 a Nardò.

    In conclusione, Francesco Di Gennaro, uno dei medici firmatari dell’articolo, commenta così quanto visto nei campi a Il Fatto Quotidiano: “Per risolvere la questione dei ghetti non basta la collaborazione delle istituzioni, dei cittadini, delle parrocchie e delle associazioni, su cui noi abbiamo sempre potuto contare, ora più che mai occorre non voltarsi dall’altra parte e assumersi le proprie responsabilità. (…) Un obiettivo che ci poniamo è quello di far riflettere i consumatori, affinché facciano scelte consapevoli quando acquistano alimenti che vengono prodotti attraverso lo sfruttamento”.

     

    E voi quali strategie seguite per capire se quanto acquistate è effettivamente prodotto in maniera legale e rispettosa dei diritti dei lavoratori?

    Passaporto friulano e cuore bolognese, Angela vive a Udine dove lavora come giornalista freelance. Per Il Giornale del Cibo scrive di attualità, sociale e food innovation. Il suo piatto preferito sono i tortelloni burro, salvia e una sana spolverata di parmigiano: comfort food per eccellenza, ha imparato a fare la sfoglia per poterli mangiare e condividere ogni volta che ne sente il bisogno.

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