Gadus Morhua, il nome da manuale, merluzzo, il nome d’uso comune. Di ricette per preparare questo pesce ne è pieno il mondo: bollito, fritto, in umido o assemblato in deliziose polpette, il merluzzo è un alimento ricco di proteine e sali minerali, povero di grassi saturi e con un buon contenuto di OMEGA3. Un cibo prezioso per la nostra salute e per questo motivo consigliato nelle diete ipocaloriche se consumato al naturale. Ma non si può parlare di merluzzo senza occuparsi anche dei suoi derivati più famosi, il baccalà e lo stoccafisso, Conservato mediante salagione il primo, mediante essiccazione il secondo.
La lunga storia del baccalà
La storia di questi metodi di conservazione del merluzzo si intreccia con quella delle grandi esplorazioni. Primi pescatori di merluzzo furono i vichinghi. I mari norvegesi, ricchissimi di questo pesce, fornivano ai navigatori un alimento perfetto per le loro esigenze: nutriente, leggero e a lunga conservazione. Una volta pescato, il pesce veniva fatto essiccare all’aria aperta e così, disidratato, era adatto ad essere consumato durante gli interminabili viaggi sul mare. Nacque in questo modo lo stoccafisso, dastock, legno e fish, pesce. Per il baccalà dobbiamo invece ringraziare i navigatori baschi, i quali giunsero nei mari del nord andando a caccia di balene. Inseguiti dai baschi, i grandi cetacei si spinsero infatti fino all’Atlantico settentrionale e guidarono involontariamente i loro aguzzini nel bel mezzo dei Grand Banks, fitti banchi di merluzzo. Lì i baschi non solo scoprirono il merluzzo, ma ben presto rubarono anche ai Vichinghi il monopolio della pesca.
Per conservarlo utilizzarono però un metodo diverso, lo stesso usato per la carne di balena: invece di esporre il pesce all’aria, in Spagna decisamente più calda che in Norvegia, lo misero sotto sale. I Vichinghi, a loro volta, impararono dai Baschi questo nuovo metodo di conservazione del merluzzo e lo esportarono in molte parti del mondo. La storia del baccalà ci riporta poi al 1620, quando i Pilgrim Fathers, protestanti in fuga dall’Inghilterra, sbarcarono con le loro navi in America, approdando a Cape Cod, che per l’appunto significa Capo Merluzzo, in virtù della grande pescosità di questo pesce nel mare circostante. Una decina di anni più tardi, le navi americane che partivano dal New England vendevano baccalà in cambio di schiavi e prodotti coloniali. Tappe commerciali dei loro viaggi erano i porti dei Caraibi, delle isole Canarie, di Capo Verde e del Portogallo. Questo lucroso mercato del pesce allettò ben presto gli Inglesi, i quali tentarono in tutti i modi di insinuarsi nelle rotte commerciali americane: ciò provocò continui scontri in mare e contribuì a inasprire i già cattivi rapporti tra l’Inghilterra e la sua ex colonia.
E d’altronde ancora oggi un bel merluzzo campeggia sullo stemma municipale di Boston, in ricordo dell’importanza che la sua commercializzazione rivestì per gli abitanti del luogo. Nel corso dei secoli successivi il baccalà risolse i problemi delle popolazioni affamate: nell’800, per esempio, la classe operaia inglese si nutriva di fish and chips, un pasto economico in cui il pesce in questione era ancora una volta baccalà. In Italia invece il baccalà arrivò grazie ad un caso fortuito: nel 1432 il veneziano Pietro Querini naufragò in Norvegia, nelle isole Lofoten, dove ebbe modo di osservare la pesca del merluzzo e apprenderne le varie tecniche di conservazione. Al suo ritorno in patria portò con sé le preziose scoperte: neanche a dirlo, fu un successone! Il consumo di baccalà si diffuse prima nelle località di mare (Venezia, Genova, Napoli, Sicilia) per poi spostarsi anche nelle regioni interne.
Ma cerchiamo di capire, adesso, cosa accade al merluzzo quando viene pescato. Una volta tirato fuori dall’acqua di mare, il pesce viene decapitato, eviscerato, aperto a libro, privato della spina dorsale, quindi posizionato in un barile che contiene sale a strati, dove rimane per tre settimane. Lo scopo della salamoia è quello di tirare fuori dalle cellule tutta l’acqua: il merluzzo così, essiccato, potrà essere conservato a lungo, è diventato baccalà.
Come riconoscere un buon baccalà?
Riconoscere il baccalà migliore sul banco della pescheria non è una cosa semplice: a seconda delle stagioni e delle zone in cui viene pescato il merluzzo possiede infatti diverse qualità. Aguzzando la vista però, è possibile ridurre il margine d’errore. Il pesce non dev’essere mai più corto di 40 cm e deve avere uno spessore di almeno 3 cm nella parte centrale. Badate che la pelle sia chiara, la polpa traslucida, morbida, elastica e di colore bianco, mai giallastro. Attenzione però che il bianco non sia troppo “candido”, questo potrebbe essere indice di un trattamento sbiancante a base di calce. È anche possibile trovare baccalà venduto in filetti già diliscati. Si tratta di un prodotto buono e di più semplice impiego. Questa tipologia ha la caratteristica di essere meno salata, necessita dunque di una immersione in acqua meno lunga.
Occorre ance sapere che la denominazione “baccalà” è riservata al Gadus Morhua e Gadus Macrocephalus, salato e stagionato. Il brosme il molva salti, e stagionati assomigliano al baccalà ma non lo sono. Si tratta, insomma, di succedanei di minore pregio gastronomico. Per il consumatore è difficile distinguere a occhio un tipo di filetto dall’altro. Non ha problemi se l’acquista etichettato al supermercato, dove però deve pretendere un prezzo più contenuto per il brosme il molva. Una buona etichetta riporta, oltre agli ingredienti, alla data di confezionamento e di scadenza, il nome scientifico e la zona di cattura Fao. In questo caso è la n°27, corrispondente all’Atlantico nord-orientale. Se il baccalà lo comprate sfuso al mercatino o dal pescivendolo, dovrete fidarvi del rivenditore.
Dissalare il baccalà
Dopo l’acquisto e prima della cottura il baccalà deve esseredissalato, in modo da eliminare il sale in eccesso e far rigonfiare e ammorbidire la carne. I manuali di cucina indicano una bagnatura variabile, che può essere di 12, 24 o 48 ore. Tuttavia, la dissalazione di 12 ore risulta quasi sempre insufficiente ed è pertanto consigliabile lasciare in ammollo il pesce per 48 ore, a meno che non si tratti di filetti o di baccalà tagliato a pezzi: in questo caso 36 ore saranno sufficienti. Il pesce deve essere completamente immerso in acqua fredda e, se è il caso, spazzolato per eliminare l’eventuale sale incrostato. L’acqua va cambiata frequentemente, almeno ogni 2-4 ore. Non bisogna temere che risulti insipido al gusto, perché la cottura metterà in risalto il sale rimasto nelle fibre.A questo punto è possibile procedere con la pulitura: prima della cottura occorre sgocciolare i filetti e asciugarli bene, quindi controllare che non ci siano ancora lische nella polpa ed eventualmente rimuoverle con una pinzetta. A seconda del tipo di cottura e in base alle preferenze personali, si può scegliere se eliminare o conservare la pelle. È importante comunque ricordare che una volta dissalato, il baccalà va cucinato immediatamente.
La questione linguistica
In conclusione, una piccola, ma importante, nota linguistica utile per evitare spiacevoli equivoci. In Italia, come nel resto del mondo, la parola baccalà, di derivazione fiamminga, viene utilizzata per indicare il merluzzo conservato per salagione, mentre la parola stoccafisso (con le varianti dialettali di stocche episcistoccu) indica il pesce conservato per essiccamento. Però, nell’area veneta della nostra penisola, con la parola “baccalà” si indica in realtà lo stoccafisso: il merluzzo conservato tramite salagione ha in queste zone scarso impiego. Accade così che il celeberrimo “baccalà alla vicentina”, sia preparato in realtà con lo stoccafisso. Ulteriore confusione insorge qualora ci si rechi in Lombardia, dove si chiama “merluzzo” sia il pesce fresco che quello conservato.
Ma sebbene queste differenze linguistiche potrebbero trarre in inganno le nostre menti, lo stesso non potrà dirsi per i nostri palati: baccalà e stoccafisso hanno un sapore completamente diverso.
La foto dello stoccafisso è tratta da Wikimedia Commons
di Caterina Maddi