Allevamenti intensivi: cosa è bene sapere? Il punto dopo le inchieste
Gli allevamenti intensivi da tempo sono oggetto di forti critiche. Le inchieste più recenti hanno acceso i riflettori sulle scarse condizioni di vita degli animali, sui possibili rischi per la salute umana dovuti all’uso di farmaci e sull’impatto ambientale spesso sottovalutato di queste attività. Ci siamo già occupati di polli d’allevamento a basso prezzo, questa volta cercheremo di approfondire le caratteristiche e la regolamentazione degli allevamenti intensivi, anche alla luce di alcuni casi incresciosi emersi negli ultimi mesi, grazie alle indagini giornalistiche e dei Nuclei antisofisticazioni e sanità (NAS) dei Carabinieri.
Allevamenti intensivi: origini e impostazione
Gli allevamenti intensivi, come abbiamo accennato anche parlando del libro Farmageddon, si caratterizzano innanzitutto per un’impostazione industriale, che ha l’obiettivo di massimizzare le quantità prodotte, riducendo al minimo i costi e gli spazi necessari. Questi concetti, che hanno costituito un modello standardizzato, sono entrati nella pratica zootecnica durante il secolo scorso. Soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, lo schema industriale si è diffuso, allo scopo di fornire prodotti di origine animale a prezzi sempre più accessibili, anche per le fasce meno abbienti della popolazione. In questo modo le proteine animali, un tempo appannaggio delle sole classi benestanti, sono entrate nelle cucine di tutte le fasce sociali.
Alla base dei consumi di massa
L’uso di nuovi strumenti e ritrovati – meccanici, farmacologici e veterinari – ha permesso di efficientare l’allevamento, inquadrandolo come uno degli ingranaggi alla base della grande distribuzione organizzata, che vede nei supermercati il terminale di un sistema di produzione e consumo rivoluzionato. Questo tipo di allevamento ha determinato anche la selezione delle razze e dei mangimi più produttivi. Oggi gli allevamenti intensivi sono diffusi in tutto il mondo industrializzato, e per quantità prodotte costituiscono di gran lunga la prima fonte di approvvigionamento di cibi di origine animale. Negli ultimi anni, però, questo metodo produttivo è stato sempre più additato per le sue criticità, che l’aumentata sensibilità etica e salutistica dei consumatori sembra tollerare sempre meno.
Perché sono criticati?
L’avversione e la diffidenza verso gli allevamenti intensivi è motivata da alcune questioni principali, eccole descritte singolarmente.
- La qualità degli alimenti prodotti con questa metodologia non è e non può essere elevata, dato che la linea guida è la riduzione dei costi, per chi produce e per chi acquista. Se è vero che le tendenze dei consumi sono sempre più orientate su cibi genuini, sani e gustosi, sul piano organolettico e salutistico gli alimenti più economici difficilmente potranno risultare soddisfacenti.
- Anche il tema dell’igiene, legato all’aspetto qualitativo appena descritto, solleva dubbi sugli allevamenti intensivi. In queste strutture la concentrazione dei capi allevati è molto alta, aspetto che richiede dosi più alte di farmaci e antibiotici, per garantire la sicurezza sanitaria e prevenire la possibile diffusione di infezioni o epidemie.
- Il benessere degli animali è sempre più sentito dai consumatori, e spesso risulta essere l’argomento più forte sul piano etico ed emotivo, prevalendo anche sulle altre problematiche qui descritte. Innegabilmente, le immagini delle condizioni di vita degli animali negli allevamenti intensivi contribuiscono a indurre molte persone verso un’alimentazione vegetariana o vegana, abitudini che anche in Italia sono sempre più diffuse, come abbiamo evidenziato in un nostro precedente articolo.
- L’uso eccessivo e improprio dei farmaci, argomento connesso ai due precedenti, può favorire la resistenza agli antibiotici, condizione pericolosa descritta in un nostro precedente approfondimento. Negli allevamenti intensivi, purtroppo, non è infrequente che i medicinali siano usati per stimolare la crescita degli animali. L’impiego di ormoni, vietato in Europa, è una pratica diffusa negli Stati Uniti.
- Si tende a sottovalutare l’impatto ambientale degli allevamenti intensivi, che invece determina un inquinamento non trascurabile, sia per le emissioni di gas serra, sia per la produzione di liquami che possono contaminare le acque. Non meno rilevante è il consumo di risorse, quali acqua, foraggi e mangimi, determinato da un’eccessiva diffusione dell’allevamento, che in alcune aree del mondo comporta il disboscamento, a sua volta causa di desertificazione e danno alla biodiversità.
Nel corso degli anni, gli allevamenti intensivi sono stati sottoposti a revisioni per migliorare questi “punti deboli”, anche per eliminare il rischio di dover nuovamente affrontare emergenze causate da gravi patologie molto pericolose per l’essere umano, come la cosiddetta mucca pazza e l’influenza aviaria. Queste malattie, infatti, si sono sviluppate a causa di un’applicazione esasperata dei concetti industriali sopra descritti. L’Unione europea, negli ultimi vent’anni, ha emanato disposizioni precise e all’avanguardia per far fronte a questi problemi. Nel mondo, tuttavia, non ci sono normative riconosciute universalmente, anche per questo è sempre bene preferire cibi di origine animale di provenienza nazionale, o quantomeno comunitaria.
La regolamentazione europea
La Decisione 78/923/CEE del 1978, modificata nel 1992 con la 92/583/CEE, è stata la prima a normare la protezione degli animali negli allevamenti a livello comunitario. Nel 1998 la Direttiva 98/58/CE ha introdotto principi significativi per il benessere dei capi d’allevamento, indipendentemente dalla specie e dal tipo di produzione ai quali sono destinati. Negli anni successivi, sono state approvate ulteriori direttive specifiche per le galline ovaiole (1999/74/CE), per i polli da carne (2007/43/CE), per i vitelli (2008/119/CE) e per i suini (2008/120/CE).
Alcune disposizioni per i suini
Per dare un’idea delle norme alle quali sono tenuti ad attenersi gli allevamenti intensivi, a titolo esemplificativo possiamo citare alcune disposizioni relative ai suini. Ecco cosa si stabilisce sugli spazi di vita.
- Locali di stabulazione. Le norme sulla superficie sono stabilite secondo il peso dell’animale: 0,15 metri quadri per un suino al di sotto dei 10 kg; 1 metro quadro per animali superiori a 110 kg; 1,64 metri quadri per le scrofetta; 2,25 metri quadri per la scrofa; 6 metri quadri per un verro (10 se il verro viene impiegato per l’accoppiamento).
- Requisiti dell’ambiente. I pavimenti devono essere non sdrucciolevoli e senza asperità per evitare lesioni. La zona in cui coricarsi deve essere confortevole, pulita e asciutta. I rumori continui di intensità pari a 85 decibel devono essere evitati. I suini devono essere tenuti alla luce di un’intensità di almeno 40 lux, per un periodo minimo di 8 ore al giorno.
Cos’è emerso dalle inchieste?
Quest’anno la serie di inchieste del programma Rai Animali come noi ha riacceso i riflettori sugli allevamenti intensivi, con episodi e immagini che hanno suscitato pena e rabbia. Le sei puntate andate in onda fra marzo e aprile hanno mostrato molte delle criticità del ciclo produttivo industrializzato dei prodotti di origine animale, evidenziando anche diverse violazioni della legge.
Sovraffollamento e mancanza di igiene
La telecamera di Animali come noi, con l’aiuto di attivisti per i diritti degli animali, è entrata di nascosto durante la notte in alcuni allevamenti suini della provincia di Cremona. Queste irruzioni notturne hanno denunciato situazioni di malessere degli animali, con patologie non adeguatamente curate e gravi mancanze di igiene. Inoltre, i maiali spesso accusavano ferite da morsi alla coda, abbastanza frequenti quando l’aggressività dovuta al sovraffollamento dei capi, cresciuti in spazi molto ristretti, spinge gli stessi ad azzannarsi fra loro. Nel distretto della lavorazione delle carne suine, si sono verificati anche casi di sfruttamento della manodopera, con numerosi lavoratori che hanno palesato problemi fisici dovuti a turni troppo lunghi e pesanti.
Maltrattamenti e conseguenze dei ritmi eccessivi
Meno conosciuti ma altrettanto gravi sono parsi i casi di alcuni allevamenti di bufale nella provincia di Frosinone, dove i bufalini maschi – inutili per la produzione del latte col quale si produce la mozzarella – non raramente venivano lasciati morire di stenti. Le inchieste hanno anche approfondito il caso di un macello nel Bresciano, chiuso in seguito alle indagini dei NAS a causa dei maltrattamenti che venivano inflitti alle mucche da latte non più idonee alla produzione, con palesi violazioni della legge.
In questa struttura, le cosiddette vacche a terra – sfinite dai ritmi esasperati degli allevamenti intensivi dopo pochi anni di vita e non più in grado di reggersi in piedi – venivano trascinate con muletti e catene alla linea di macellazione, talvolta con perdite di sangue rischiose anche sul piano sanitario. I capi, inoltre, venivano colpiti con pungoli e altri strumenti per obbligarli a raggiungere i punti di abbattimento. I responsabili di questo macello e i veterinari compiacenti coinvolti sono stati tutti condannati. I NAS hanno anche riscontrato casi di somministrazione impropria di ipofamina, un farmaco che stimola le vacche alla produzione di latte. Questi sono alcuni dei casi scioccanti mostrati dalle inchieste, che, seppur non totalmente generalizzabili, non possono lasciare indifferenti.
Il punto di vista degli allevatori
La presidente degli allevatori di suini di Confagricoltura Giovanna Parmigiani, durante una puntata di Animali come noi, è stata intervistata sui casi deplorevoli mostrati nell’inchiesta. Anche la rivista di settore Suinicultura si è espressa criticamente sulle immagini mandate in onda dal programma Rai. La presidente Parmigiani, in sostanza, ha sottolineato che le situazioni in oggetto sono da ritenersi casi isolati da perseguire, difendendo la serietà e la sicurezza degli allevamenti italiani, relativamente al benessere degli animali e alla salubrità dei prodotti. I controlli nel nostro Paese sarebbero frequenti e rigorosi, garantendo condizioni di allevamento affidabili e un impiego di farmaci e antibiotici monitorato e limitato al necessario. Le buone condizioni dei capi allevati, peraltro, anche sul piano economico sarebbero a tutto vantaggio degli allevatori stessi.
Allevamenti intensivi: possiamo farne a meno?
Al netto di tutte le informazioni che possiamo acquisire sugli allevamenti intensivi, questa è la domanda più importante da porsi. Per mantenere i regimi di consumo attuali, o tantomeno per incrementarli, la risposta è semplice e immediata: no. Si potrebbe aggiungere un “purtroppo” un po’ ipocrita, ma inevitabilmente gli allevamenti intensivi sono imprescindibili per assicurare alte quantità prodotte a prezzi bassi. Come evidenzia un rapporto FAO del 2011, su scala globale le richieste di alimenti di origine animale sono in aumento. Anche se nei Paesi sviluppati, per motivi etico-salutistici o relativi alla crisi economica, si sta verificando un lieve calo dei consumi, dato che interessa anche l’Italia, nelle aree del mondo in via di sviluppo – che rappresentano la maggior parte della popolazione – la tendenza è opposta. Il costante aumento della popolazione mondiale, che avviene soprattutto in questi Paesi, influisce in modo determinante sulla crescente domanda di prodotti animali. Nei Paesi industrializzati, invece, seppur in leggero decremento, i consumi sono comunque nettamente più alti nel dato pro capite.
Cambiare le abitudini
Pertanto, è evidente che alle condizioni attuali sarebbe impossibile rinunciare al modello industriale di allevamento. L’unica strada per spingere un vero ripensamento dei metodi d’allevamento su larga scala non può che essere la riconversione delle abitudini dei consumatori, per un uso più contenuto e possibilmente più qualitativo dei cibi di origine animale. Nel frattempo, resta doveroso l’impegno per garantire condizioni di vita il più possibile accettabili agli animali che vivono negli allevamenti intensivi.
Dopo questo approfondimento sugli allevamenti intensivi, può essere interessante leggere i nostri articoli sull’allevamento dei polli da carne, sulla sostenibilità della dieta vegetariana e sulla possibile nocività del consumo di latte vaccino.
Fonti e ulteriori approfondimenti:
Decisioni 78/923/CEE e 92/583/CEE sulla protezione degli animali negli allevamenti
Direttiva 98/58/CE sulla protezione degli animali negli allevamenti
Direttiva 1999/74/CE sulle galline ovaiole
Direttiva 2007/43/CE sui polli da carne
Direttiva 2008/119/CE sui vitelli
Direttiva 2008/120/CE sui suini
Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura – FAO
Coldiretti
Animali come noi
Suinicultura