Colture fuori suolo: idroponica e acquaponica sono l’agricoltura del futuro?
“Trovo moralmente oltraggioso che nel 2014 ci siano ancora centinaia di milioni di persone nel mondo che soffrono l’ingiustizia di vivere senza abbastanza cibo per sfamarsi”, così si esprimeva qualche anno fa l’ex presidente USA Barack Obama intervistato da Il Corriere della Sera. Come non essere d’accordo? E se agli 821 milioni di persone che oggi soffrono la fame nel mondo, aggiungiamo le previsioni allarmanti che la FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) ha più volte annunciato, riguardo all’aumento della popolazione mondiale e ai migranti climatici che abbandonano le proprie terre a causa del climate change, ai conflitti e alle conseguenti carestie, alla distruzione degli ecosistemi e allo sfruttamento delle risorse naturali esauribili, ci rendiamo conto di come il quadro generale assuma tinte molto fosche.
È qui che le colture fuori suolo, in particolare idroponica e acquaponica, si inseriscono come fondamentale contributo alla soluzione, proponendosi, a ragion veduta, come l’agricoltura del futuro, capace di rispondere efficacemente ai 17 goals, gli obiettivi comuni dell’agenda ONU 2030, per uno sviluppo ambientale, economico e sociale sostenibile e, quindi, durevole nel tempo.
Scopriamo insieme che cosa sono e quali sono differenze e gli aspetti comuni dei due metodi di coltivazione, a partire da un contesto di riferimento generale sulle sfide alimentari del (prossimo) futuro.
Come nutrire il pianeta?
Expo 2015 e la Carta di Milano sono state esperienze che hanno fatto da cassa di risonanza mondiale sul tema dell’accesso al cibo, mettendo al centro l’ormai famosa domanda “How to feed the Planet?” a cui dare risposta con impegni concreti in relazione al diritto al cibo, che è e deve essere considerato un diritto umano fondamentale.
La FAO ha stimato che nel 2050 ci saranno 10 miliardi di persone nel mondo e questo renderà necessario un aumento della produzione di cibo del 70% rispetto ad oggi. Non solo, secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, le tecniche di coltivazione attuali non saranno né sufficienti né sostenibili per questa nuova sfida, che vede invece i centri urbani, l’innovazione tecnologica e nuove forme di partecipazione attiva dei cittadini, sempre più protagonisti.
Come sottolineato da Slow Food, il recente rapporto della FAO sulla stato della biodiversità nel mondo, “denuncia, tra le altre cose, la gestione insostenibile delle risorse naturali”.
Se le principali sfide sono quindi nutrire la crescente popolazione con il minor impatto ambientale possibile, trovare alternative al consumo di suolo, non disponibile e spesso anche contaminato a causa del problema delle micro e nano plastiche nei terreni, le risposte devono essere rappresentate da sistemi efficaci ed efficienti, rispettosi dell’ambiente e della biodiversità ed ecologici, per risparmiare risorse. In questo senso le coltivazioni fuori suolo, che hanno rese elevatissime, rappresentano un innovativo approccio alla produzione.
Colture fuori suolo: cosa sono?
Molti commentatori le definiscono la “rivoluzione industriale dell’agricoltura”, ma cosa sono le colture fuori suolo e che vantaggi hanno rispetto ai metodi tradizionali?
Si tratta di coltivazioni senza terra, fuori dal suolo, spesso molto più comode e pratiche anche nella gestione, ma soprattutto, più sostenibili rispetto ai metodi tradizionali. Come ha spiegato in un’intervista al Gambero Rosso il prof. Giorgio Prosdocimi Gianquinto – Direttore del Centro Studi e Ricerche in Agricoltura Urbana e Biodiversità (ResCUE-AB) del Dipartimento di Scienze Agrarie dell’Università di Bologna – “Banalmente, anche una comune pianta in vaso che teniamo sul balcone di casa nostra è una coltura fuori suolo. Bisogna dunque precisare che il termine ‘idroponica’ si usa per indicare le ‘colture senza substrato o su mezzo liquido’: le colture ‘fuori suolo’, infatti, si possono suddividere in ‘colture su substrato’ e ‘colture senza substrato o su mezzo liquido’. Nelle prime, le radici affondano in un substrato di diverso tipo (organico, inorganico o artificiale) che viene costantemente inumidito con la soluzione nutritiva (es. la pianta in vaso di cui parlavamo sopra), nelle seconde l’apparato radicale è immerso direttamente nella soluzione nutritiva. Le coltivazioni idroponiche rientrano in questa seconda categoria”.
Alla luce di queste caratteristiche, è facile comprendere perché le coltivazioni fuori suolo, stiano riscuotendo un grande successo nei luoghi dove di terreno a disposizione ce n’è poco, ad esempio l’Olanda. Oggi vogliamo concentrarci su idroponica e acquaponica.
Idroponica
Nella coltivazione idroponica realizzata attraverso vasche generalmente poste all’interno di una serra, le radici delle piante sono immerse direttamente nella soluzione nutritiva composta da acqua e da sostanze in essa contenute, ovvero sali, minerali e altri microelementi. Per nutrire le piante, quindi, vengono utilizzate soluzioni nutritive create o con processi di sintesi industriale o attraverso l’estrazione e successiva raffinazione di rocce, come quelle fosfatiche. Non c’è terra, ma solo un substrato di ancoraggio per le radici costituito nella maggior parte dei casi da argilla espansa, zeolite, lana di roccia e fibra di cocco.
Acquaponica
L’acquaponica, invece, mette insieme coltivazione idroponica e acquacoltura, per questo la FAO le ha dedicato numerosi approfondimenti e un manuale pratico per la realizzazione di impianti di piccola scala.
Grazie alla presenza di pesci a scopo ornamentale o alimentare, l’impianto di acquaponica riesce a creare un ecosistema chiuso e circolare: l’ammoniaca presente negli escrementi dei pesci viene trasformata da alcuni particolari batteri per diventare nutrimento delle piante, che a loro volta purificano l’acqua per i pesci. Un processo naturale, quindi, basato sulla delicata sinergia tra piante, pesci e batteri. Qui il substrato di argilla espansa o altra materia inerte, non costituisce solo l’ancoraggio iniziale delle piante, ma partecipa attivamente allo sviluppo dei batteri poiché fornisce loro spazio per proliferare.
A loro è stata dedicata NovelFarm, manifestazione internazionale unica in Italia per questo settore, che si è svolta a Pordenone il 13 e 14 febbraio scorso, dove abbiamo fatto un salto per capirci di più su questi metodi agricoli.
In questo contesto è stato dato spazio non solo ad aziende leader del settore, ma anche al “grand finale” di una challenge internazionale, Urbanfarm2019, promossa dall’Università di Bologna e da quella di Firenze, che ha previsto la progettazione di sistemi innovativi di agricoltura urbana per la riqualificazione di tre siti nelle città di Bologna, Belluno e Conegliano.
Ma facciamo un passo indietro.
Perché l’Urban Farming?
È la stessa FAO a sottolineare l’importanza dell’urban farming, ovvero di come, considerato che nel 2030 il 60% della popolazione mondiale vivrà nelle città, i centri urbani siano al contempo causa e possibile soluzione al cambiamento climatico. Per dirla con le parole del manifesto dello studio “Stefano Boeri Architetti”, progettisti del primo Bosco Verticale a Milano, incrementare gli alberi, le piante e il verde nelle città del mondo “può aiutare ad assorbire CO2, ridurre drasticamente l’inquinamento, il consumo energetico e l’effetto “isola di calore urbano” (ovvero il surriscaldamento urbano dovuto alla forte cementificazione e all’utilizzo di macchinari, ndr) migliorando la biodiversità delle specie viventi e rendendo le città più sicure, piacevoli e salubri”.
A Pordenone, tra i 35 team in gara e i 130 studenti provenienti da 28 università in giro per il mondo, i terzi classificati hanno vinto la riqualificazione di un edificio abbandonato di Bologna, proprio con un progetto di urban farming fondato sulla coltivazione acquaponica, infatti, come ci hanno raccontato: “se serve più cibo, se non c’è più spazio, se le persone saranno sempre più concentrate nelle città, allora è nelle città che occorre creare nuovo verde e produrre nuovo cibo, in modo sostenibile, anche per contribuire ad abbassare il surriscaldamento globale. Le coltivazioni fuori suolo hanno le caratteristiche giuste per questa rivoluzione”.
Perché? Scopriamone tutti i vantaggi!
Niente suolo, molti vantaggi: perché si tratta del futuro dell’agricoltura?
Che si tratti di impianti High Tech, Medium Tech e Low Tech, ovvero di aziende che utilizzano serre di ultima generazione e procedure automatizzate, oppure di sistemi semplici, basati sul riciclo, maggiormente diffusi nelle periferie urbane, sono moltissimi i vantaggi delle colture fuori suolo:
- rese elevatissime per metro quadro in tempi rapidi
- riduzione dell’uso di suolo per la produzione agricola
- risparmio idrico dell’80%-90% rispetto ai metodi di coltivazione tradizionali
- indipendenza dalle condizioni climatiche
- possibilità di utilizzare varietà ottimizzate che richiederebbero uso di prodotti chimici in grandi quantità.
Negli impianti acquaponici, inoltre, viene garantita la salubrità dei prodotti coltivati, poiché non vengono utilizzati pesticidi e fitofarmaci, che andrebbero ad uccidere i pesci, mentre l’uso di agrofarmaci e diserbanti è possibile in idroponica, seppur molto limitato.
Considerando l’impellenza della sfida ambientale, a pochi giorni dallo sciopero mondiale per il clima, e il successo che stanno ottenendo dentro e fuori i confini nazionali, sembra proprio che i metodi di coltivazione fuori suolo non siano il futuro, ma il presente dell’agricoltura. Per fortuna, verrebbe da dire.
Voi cosa ne pensate? Le conoscevate già?
Tutte le foto (tranne quella dell’impianto idroponico) sono di Aquaponic Design
Il video è di UrbanFarm2019