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Chef Ciro Scamardella e il ristorante Pipero di Roma

Redazione
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    “La mia avventura in questo ristorante ha avuto inizio grazie ad un incontro casuale: una notte, di ritorno dal lavoro, ho incrociato Alessandro Pipero (il proprietario) a un semaforo. Sapevo che in quel periodo si stava chiudendo la collaborazione con Luciano Monosilio, il precedente chef, e gli ho proposto di andare a bere una birra assieme per fare due chiacchiere. Serve coraggio nella vita, in ogni cosa. A Napoli diciamo ‘Chi nun téne curaggio nun se còcca che’ e femmene belle’ (chi non ha coraggio non va’ a letto con belle donne)”.

    Parole, coraggio e proverbio dello chef del ristorante Pipero di Roma (1 stella Michelin). Ragazzo avvicinatosi alla cucina per la scarsa propensione allo studio e partito come lavapiatti in un pub per giungere a proporre una idea di cucina costruita nel tempo, con le esperienze, basata sui sapori della sua terra. Ecco la mia intervista a Ciro Scamardella.

    Il ristorante Pipero

    La giornata capitolina è particolarmente afosa, sono giunto da Pipero con il mio scooter e trovo finalmente sollievo grazie all’aria condizionata della saletta del ristorante, dove c’è Ciro ad attendermi. È un ragazzo sempre sorridente, altro, magro, con caratteristiche occhiaie e la barba. Mi accoglie parlandomi della gestione delle prenotazioni, dei turisti che affollano il locale e dei romani che confondono la loro insegna con quella di una caratteristica trattoria della capitale, chiedendo spesso di riservare tavoli da 10 o 12 persone e costringendo il personale a sottolineare il tipo di cucina che loro propongono. Il ristorante ha superato indenne vari cambi di sede e di chef, confermando anno dopo anno la stella Michelin, fregiandosi tra le altre cose d’avere in carta la più buona (e famosa) Carbonara della città.

    Ciro Scamardella: la scuola, il pub e l’amore per la cucina

    chef scamardella

    Foto: Andrea Di Lorenzo

    Chiedo a Ciro di parlarmi dei suoi inizi in cucina: “Sono entrato in cucina a 17 anni perché non avevo voglia di studiare. Mio padre disse che mi avrebbe sostenuto negli studi, di qualunque livello, altrimenti avrei dovuto lavorare per mantenermi, perché non accettava l’idea d’avere un figlio che non facesse nulla. Ho iniziato in un irish pub da 1400 coperti, al sabato, a Monte di Procida (O’ Croinin, siamo in provincia di Napoli)”. Mi racconta di una paga da 60 euro al giorno per un turno di lavoro da 12 ore che terminava alle cinque del mattino. Quindi il passaggio ad assistente dello chef, con la scoperta di un forte amore per la cucina e la successiva voglia di studiare (scherzo del destino…), acquistando un gran numero di libri e riviste di settore: “Saltavo la scuola e trascorrevo intere giornate da La Feltrinelli a Napoli, nel piccolissimo spazio (all’epoca) dedicato alla cucina, divorando i testi della cucina d’autore di Giunti”.

    Le stagioni e le prime esperienze

    Arrivato a quel punto, su suggerimento dei docenti della scuola del Gambero Rosso, capisce che deve fare esperienza per acquisire maggior conoscenza delle dinamiche che caratterizzano il lavoro in cucina: “Ho fatto una stagione al ristorante La Sirena di Filicudi, poi un’estate all’Isola d’Elba in un Hotel 5 stelle con ristorante interno, il room service e un numero quotidiano di coperti davvero impressionante”. Gli chiedo delle tappe fondamentali della sua carriera, scoprendo che più che a ristoranti e paesi è legato alle persone: “Più che luoghi importanti ci sono state persone alle quali mi sono affidato, come Nicola Miele, responsabile delle scuole del Gambero Rosso di Napoli, e Paolo Barrale, ex chef del Marennà (1 stella Michelin) della cantina Feudi San Gregorio”.

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    Foto: Andrea Di Lorenzo

    Berasategui, Caceres e Genovese

    La voglia di imparare è oramai divenuta il parametro che Ciro utilizza per scegliere i successivi passaggi del suo percorso accanto ai maestri del nostro tempo, e la nuova tappa lo porta in Spagna, alla corte di Martin Berasategui. “Dopo un mese iniziai ad aver dubbi sulla scelta fatta: 60 cuochi per 30 coperti a pranzo e 40 a cena. Ogni capo partita gestiva anche la cucina di uno dei tanti ristoranti dello chef dislocati nel mondo, ero un piccolo ingranaggio di un enorme meccanismo. Passo dopo passo ho conquistato posizioni, ho imparato tanto. Mi è stato proposto di gestire un ristorante della catena di Berasategui in Repubblica Dominicana ma questioni burocratiche allungarono i tempi, e non guadagnando da mesi, tra stage ed altre esperienze gratuite, avevo necessità di lavorare”. Prima di andare in Spagna trascorse un breve periodo, poi rivelatosi decisivo per la sua carriera, al ristorante Metamorfosi di Roy Caceres, dove conobbe John Regefalk, il suo sous chef, divenuto poi suo grande amico. Infatti, dopo essere approdato alla cucina de Il Pagliaccio di Anthony Genovese (“Uomo incredibile, un continuo insegnamento, in ogni piccolo gesto”) viene a sapere che Caceres è in cerca di un cuoco. Si propone, viene assunto, ed inizia un periodo di 4 anni con lo chef di origine colombiana, fino a divenirne il sous chef in sostituzione di John.

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    Foto: Andrea Di Lorenzo

    La filosofia culinaria di chef Scamardella 

    Italia, Spagna, Colombia, Svezia, Francia. Tanti paesi, tanti chef di origine straniera, molte contaminazioni e scoperte che hanno contribuito a formare la sua filosofia culinaria: “La mia cucina è riconoscibile per la volontà di portare in tavola i sapori della tradizione del Sud, dei piatti partenopei, che emerge tra quella romana e le tante altre che ho appreso nel corso degli anni”. Ciro mi parla della necessità di lavorare per continuare a far evolvere la sua cucina, andando sempre più verso il territorio. Anche il suo processo creativo è il frutto delle molte esperienze vissute: “Alcune volte la mia creatività è stimolata da un ingrediente, altre da una nuova tecnica osservata, altre ancora dalla scoperta di una spezia ad una manifestazione o ad un evento; non è sempre lo stesso elemento che mette in moto il processo di ideazione dei piatti. I piatti che più mi rappresentano sono la ‘Mozzarella’ e il ‘Raviolo di Genovese e polpo’, perché ci sono più fattori in quei piatti, il lavoro di tanti artigiani in un caso, le tante tecniche applicate nell’altro”.

    La personale interpretazione della Sala di Pipero

    Nel ‘regno’ di uno degli uomini di Sala più conosciuti del nostro paese (Alessandro Pipero), non posso che chiedere a Scamardella di raccontarmi il suo rapporto con l’altra metà della realtà ristorativa: “Si parla tanto di Sala ma sono pochi i personaggi autorevoli lo fanno credendoci sul serio. Qui c’è Alessandro con Achille, c’è uno stile personale. All’inizio abbiamo avuto bisogno di un po’ di tempo per entrare in sintonia e capire come valorizzare il mio ed il suo lavoro. È stato importante riuscire a farlo nel migliore dei modi perché la conoscenza di noi cuochi si ferma al pass, non saremmo in grado di fare accoglienza o di raccontare i piatti nel modo giusto”.

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    Foto: Andrea Di Lorenzo

    Lo chef moderno

    La chiacchierata continua spaziando tra vari argomenti, della lotta allo spreco (“Cerco di sprecare il meno possibile in cucina, ogni elemento viene riutilizzato”), ai fornitori (“Affidarsi ai piccoli produttori è giusto ma diviene complicato riuscire ad avere costanza nella fornitura. È interessante il lavoro di chi prova a racchiudere tanti piccoli produttori in un circuito e facilita il loro lavoro facendo da tramite, da aggregatore”), per giungere al discorso relativo allo chef moderno, diviso tra cucina, consulenze ed eventi: “Andare fuori per eventi e consulenze è un’arma a doppio taglio, perché il ristorante resta aperto e bisogna organizzare al meglio risorse e lavoro. Partecipare a questi appuntamenti serve per tenere alto il nome del ristorante e della nostra cucina. Si parla sempre delle aperture dei locali e mai delle chiusure, ci vuole poco per finire nel dimenticatoio. Fa meno audience parlare di chi da tempo riesce a tenere alto il livello del servizio, come Pipero che negli anni ha cambiato più sedi conservando sempre la stella, i clienti, proponendo una cucina interessante e stimolante”.

    Uno sguardo al futuro

    Siamo in chiusura di intervista, Ciro deve tornare in cucina per iniziare a preparare la linea per il servizio della cena, e per congedarmi gli chiedo se ha mai pensato al suo futuro: “Questo tipo di ristorazione mi rende felice, il tipo di lavoro che svolgo, la ricerca. Forse in futuro potrei cimentarmi con qualcosa di diverso, che possa magari dare ulteriore ossigeno al ristorante, ma sempre con un senso ben preciso e senza snaturare me e la mia idea di cucina”. Un’ultima battura sui suoi chef di riferimento (“Seguo ed apprezzo il lavoro di Christian Puglisi del Relae, uno dei pochissimi al mondo che davvero gestisce le materie prime in un certo modo. Ha creato il ristorante, poi la fattoria, quindi il punto vendita. Ora altri 2 punti vendita e la fattoria è divenuta una vera e propria farm”) e infine una considerazione sui tanti cambiamenti vissuti di recente: “Nell’ultimo anno ho cambiato ristorante, mi sono sposato, sono diventato papà, ho girato la trasmissione televisiva con il Gambero Rosso: ho bisogno di un periodo di assestamento e poi capirò cosa fare da grande”.

     

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