Casalinghitudine
Titolo: Casalinghitudine
Autore: Clara Sereni
Casa editrice: Einaudi
Prima edizione: 1987
Pagine: 169
Tra il romanzo d’esordio della scrittrice e la pubblicazione di questo suo secondo libro trascorrono ben 13 anni in cui si dedica alle traduzioni, soprattutto dal francese, si sposa, ha un figlio e poi, lentamente, torna a riappropriarsi della parola scritta dando forma a questo originale romanzo-ricettario, autobiografia insolita costruita sui fili della passione gastronomica.
Ricette dapprima annotate su fogli sparsi, a ognuna delle quali lega il ricordo di una persona o di un episodio che hanno attraversato la sua vita.
E il libro prende forma poco a poco, quasi di nascosto, secondo un modo di procedere che è strategia per difendere il suo privato da un’invasione eccessiva, rompendo la consequenzialità dell’autobiografia e introducendo un linguaggio altro, quello appunto del cibo. I ricordi fluiscono senza un ordine preciso, i personaggi sono analizzati attraverso ciò che mangiano, i piatti preferiti, le manie culinarie.
La materia narrata è ripartita in una serie di gruppi secondo un tipico itinerario gastronomico che si articola in: Stuzzichini, Primi piatti, Secondi piatti, Uova, Verdure, Dolcezze.
Ogni nuovo frammento inizia con una ricetta le cui indicazioni sono date in prima persona ed evitando con cura l’impiego di verbi di modo imperativo o infinito, quasi a voler accorciare le distanze con il lettore. Il successivo passaggio all’imperfetto segna invece l’inizio del ricordo vero e proprio.
Il ritmo narrativo dunque procede per frammenti, riflettendo lo spazio della coscienza che non si esprime in strutture organiche ma necessita di forme contrarie alla staticità della scrittura. Da qui il ricorso al linguaggio extra verbale, il cibo come linguaggio più efficace della parola.
E così la figura del nonno, Samuele Sereni, medico della Casa Reale, è legata alla “Minestra dei sette grani” di cui egli decantava le lodi proponendola, in un suo trattato di puericultura, come cibo ideale per i bambini; gli “Involtini di cavolo”, piatto della tradizione slava, sono l’immagine di sua madre Xenia; le crêpes, dolci o salate, rappresentano la fuga da casa durante l’adolescenza; le insalate, preparate in tutti i modi, sono il campo di battaglia dei rapporti aspri e ruvidissimi con l’ingombrante figura del padre, Emilio Sereni.
È a lui, nucleo magmatico di complicati dissidi interiori, la cui figura attraversa come un filo rosso l’intero libro, che sono legate la maggior parte delle ricette, secondo l’evolversi e l’altalenante riacutizzarsi di quei conflitti: la crema di piselli è il loro primo incontro dopo la fuga della scrittrice; l’arte di imparare a confezionare cibi leggeri e insipidi è il terreno su cui si afferma la dimostrazione di sapersi prendere cura di lui quando è alle prese con disturbi di cuore; la frittata di zucchine è l’incontro tra il dirigente comunista e Pietro Nenni nella casa di Formia, la frattura storica con cui quest’ultimo, lontani ormai gli anni del Fronte Popolare, si accingeva a guidare la svolta autonomistica del PSI, in seguito alla denuncia dei crimini di Stalin. Ricette, dunque, legate anche a eventi storici.
La pasta e fagioli è il periodo del ’68; pizza, panini e crostini sono il modo di nutrirsi, veloce e quasi casuale, che fa da contraltare alle solide conquiste degli anni ’70: la legge sul divorzio, la riforma del diritto di famiglia, l’abbassamento della maggiore età, per il diritto di voto, da 21 a 18 anni. E poi le conquiste personali: una storia d’amore, quella con il futuro marito, insieme alla quale prende parallelamente vita un rapporto ambiguo di attrazione, mista a timore di perdere la propria libertà, con i futuri suoceri, il cui ricordo è legato a piatti abbondanti e ipercalorici. “(…) la carne non è mai alla brace, bensì stracotta, ripassata, ricondita, riciclata. Si sta troppo a tavola, si mangia troppo, ci si occupa troppo del cibo. E sempre pastasciutta, e sughi, e salse, una cucina troppo grassa e proteica (…)”.
Con la nascita del figlio, il terreno del contendere tra le due donne si allarga ulteriormente, la compattezza e la solidità della famiglia vengono costantemente rinnovati da riti (e menù) che si ripetono invariati ogni anno, in occasione delle festività, mentre cresce l’insofferenza della scrittrice per questi eventi vissuti in maniera esclusiva.Col passare degli anni, però, si afferma il più pacato punto di vista della maturità, il riappropriarsi di ricette di famiglia, il piacere di inventarne e scoprirne di nuove. Accantonate le passioni giovanili, sfumato il desiderio di cambiare il mondo, si attenua anche il rifiuto deciso della famiglia soffocante, fino a che la stessa preparazione del cibo arriva ad essere considerata una maniera personale e creativa di esprimersi.
Il libro si conclude con una parte riservata alle conserve, espressione massima di quella “casalinghitudine” del titolo, che ne riassume il significato. Un neologismo da lei coniato, che da un lato riprende il termine “casalinghità”, molto usato nel movimento femminista, dall’altro invece ha legami col suo passato, dal momento che la desinenza, rara e di carattere latineggiante, è tipica di certi termini parlati nel ghetto.
E la casalinghitudine è, spiega l’autrice, “desiderio nostalgico e creativo di un mondo in cui, come diceva zia Ermelinda, ogni cosa ha il suo posto e ogni posto la sua cosa”.
di LunaB