Tempo lavoro

I paradossi del tempo-lavoro in Italia

Giuliano Gallini

Giuliano Gallini

Leggo un articolo con la testimonianza di una coppia di italiani che alcuni anni fa ha deciso di emigrare in Norvegia e di cominciare una nuova vita. Perché? Perché in Italia non avevano tempo. Il lavoro glielo portava via quasi tutto: straordinari, ritmi elevati, clienti che volevano risposte anche il sabato e la domenica…

Come lavorano invece in Norvegia? Pare che dopo l’orario di lavoro non rispondano alle mail. E, udite udite, in ogni caso possono passare ore prima di avere una risposta se chi è stato interpellato ha altro da fare (emergenze a parte). I norvegesi se la prendono comoda. I clienti pazientano, tanto non hanno fretta nemmeno loro. Hanno, così, tutti più tempo per sé. E questo tempo in più fa bene alla loro vita. In sostanza, ci dicono i nostri due emigrati, in Norvegia (e probabilmente in molti altri paesi europei) non ci sono i paradossi del tempo-lavoro che esistono in Italia.

Tempo-lavoro e contraddizione dello sviluppo

Sviluppo contraddizioni

Il primo paradosso è che crescono i disoccupati, ma chi lavora, lavora di più. Le otto ore sono regolarmente sforate da molti occupati: per richiesta esplicita dei datori di lavoro, per arrotondare con gli straordinari, perché lavorando di più si è ben visti e si fa carriera. Conosco qualcuno (ne conoscete anche voi?) che se non lavora non sa che cosa fare. Non legge, viaggia poco, non guarda tramonti, si diverte con il contagocce, non si interessa ai figli…Gli piace solo l’arrampicata sociale, e il tempo gli scorre tra le mani mentre conquista posizioni.  

Il Tempo-Lavoro è, quindi, mal distribuito. Ma il secondo paradosso è più grande ancora, e forse più di paradosso occorre parlare di contraddizione dello sviluppo: ci sono ormai le risorse economiche e finanziarie non solo per lavorare tutti 8 ore con calma, ma anche per lavorare molto meno, a parità di stipendio. Utopia?

Profitti e nuove disuguaglianze

Lavoro disuguaglianze

Lo sviluppo della tecnologia e la robotizzazione di molti processi produttivi crea disoccupazione e inventare nuovi lavori non è facile. Anche se abbiamo molta fantasia gli algoritmi ne hanno di più: non si fa in tempo a immaginare un nuovo lavoro che arriva un potenziale robot a occuparlo. Ma, questo è il punto, il valore aggiunto e i profitti generati dai robot a chi vanno? Non ai robot stessi, visto che non vediamo in giro pc, stampanti 3D, macchine automatiche fare la dichiarazione dei redditi. I profitti vanno al capitale che ha investito nei robot, e da questo deriva l’aumento delle disuguaglianze che abbiamo visto negli ultimi vent’anni e tutti i problemi sociali che ne sono derivati. Molto su questi aspetti ha scritto il sociologo Domenico De Masi, e vi raccomando la lettura dei suoi libri. Non occorre essere d’accordo: anche se qualcosa non vi convince del tutto, leggere De Masi è molto, molto interessante.
Sono passati quasi cent’anni dalle prime leggi che riducevano l’orario di lavoro. Nel 1919 l’orario passò da 60 ore settimanali a 48 e non più di 8 ore al giorno. Possibile che non si possa fare un ulteriore salto in avanti, deciso, alle 35 ore settimanali, per esempio, o alle 30? Le condizioni economiche e tecnologiche per farlo ci sarebbero tutte. Chi si oppone a questa conquista di civiltà?

Scrittore di romanzi, lettore appassionato ed esperto del mondo del cibo e della ristorazione. Crede profondamente nel valore della cultura. In cucina non può mancare un buon bicchiere di vino per tirarsi su quando sì sbaglia (cosa che, afferma, a lui succede spesso).

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