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Culinaria, le interviste ai protagonisti: Enzo Vizzari

Redazione
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    Enzo Vizzari, classe 1946, giornalista ma soprattutto direttore delle guide de l’Espresso da 35 anni, è stato uno dei protagonisti di Culinaria – Il Gusto dell’identità, la due giorni che ha unito arte e cucina in un connubio veramente ben riuscito. Grande esperto di cibo e vino, è da sempre uno dei narratori delle gesta dei migliori cuochi del nostro paese, e nel corso della prima giornata ha presentato il cooking show che ha visto protagonista Francesco Apreda, chef del ristorante Imago* di Roma, con l’artista Matteo Giuntini. Un piatto e un’opera in perfetta simbiosi, entrambi chiamati “Vulcano”, che hanno catturato l’attenzione degli ospiti anche grazie alla particolare scelta di far mangiare con le mani la creazione dello chef, per poter vivere in maniera più intensa l’idea creativa partorita dalla collaborazione tra Apreda e Giuntini. Terminata l’esibizione, abbiamo intervistato Vizzari, per capire, in presa diretta da un vero e proprio riferimento della critica enogastronomica nazionale, quanto questo tipo di esperimento sia riuscito a trasmettere le intenzioni degli organizzatori, per poi chiudere su una domanda relativa allo stato di salute della cucina italiana.

    Enzo Vizzari, Quanto l’arte può consentire ad uno chef di sfruttare maggiormente il suo potenziale creativo?

    Enzo Vizzari: “Devo confessare, e chi mi conosce lo sa bene, che conservo sempre una certa diffidenza nel mettere insieme arte e cucina proprio perché in passato abbiamo assistito a tante forzature che non hanno portato risultati di rilievo. Sento però di poter dire che il modo in cui sono stati presentati gli incontri a Culinaria, in particolare quello tra l’artista Matteo Giuntini e lo chef Francesco Apreda, e soprattutto il modo in cui sono stati realizzati, fa di questi connubi degli esperimenti riusciti. Stiamo comunque parlando di cose da mangiare e quindi principalmente devono essere buone, ma detto questo, osservando le motivazioni ed i passaggi attraverso i quali è nata la preparazione di Apreda, confrontandosi con Giuntini, si coglie sin dal nome dell’opera e del piatto (Vulcano) l’intenzione di questo binomio, perché l’esplosione di sapori che giunge al palato è esplicativa della forza della ricetta. Si può discutere da un punto di vista tecnico del piatto, qualcuno può dire ci fossero troppi sapori, ma è vero che quando un vulcano erutta non guarda in faccia a nessuno, travolge ogni cosa. Quindi oltre la facile immagine del vulcano in azione, si è colta, una sincera condivisione di intenti che si è tradotta in una eccellente preparazione tra Apreda e Giuntini”.

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    La scelta dello chef di non far utilizzare le posate per assaggiare il piatto a suo avviso è solo una trovata artistica o è una scelta decisiva per far cogliere il senso di questa proposta culinaria?

    E.V. : “In gastronomia, in cucina, sono veramente molti i casi nei quali è opportuno usare le mani. Nulla di più fastidioso di vedere trattar male un’ostrica ricorrendo alle posate. Gli esempi sono tanti e quindi non ci vedo nulla di strano, non deve diventare una consuetudine e si deve ricorrere a questo solo quando è necessario, ma in questo caso, con il piatto di Apreda, trattandosi di una foglia, dovendo essere materialmente intinta in una zuppiera che conteneva una parte essenziale del piatto, sarebbe stato un peccato non sfruttare questa occasione per mangiare con le mani”.

    Se oggi dovesse identificare i maggiori cambiamenti della cucina italiana negli ultimi anni, quali sceglierebbe?

    E.V.: “Se avete tempo parlerò per le prossime tre ore (ride, ndr). La cucina italiana ‘alta’, oggi, ha una caratteristica, e cioè di aver portato dentro di sé il meglio delle tecniche di tutto il mondo, di aver saputo affrontare un passaggio ulteriore, che consiste nell’essere riusciti ad applicare queste tecniche ai migliori prodotti, e sono davvero tantissimi, che abbiamo in Italia, andando oltre, lasciatemelo dire, l’immagine della cucina regionale di tradizione, che è indispensabile che ogni cuoco conosca, ma rispetto alla quale bisogna in parte allontanarsi. I nostri migliori cuochi sanno farlo, nel senso che applicano le tecniche, anche le più avanzate, a prodotti rigorosamente nostri. Magari anche citando esperienze della tradizione, ma questo non è assolutamente necessario. Siamo in grado di fare una cucina italiana alta e contemporanea. È altrettanto importante anche il lavoro di chi racconta la cucina italiana: abbiamo bisogno, in questo momento in cui tutti si sentono legittimati a parlare e sparlare di cucina, di un approccio serio e professionale in questo nostro grande carrozzone ricco di saltimbanchi e di improvvisatori”.

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    In questa chiacchierata con Enzo Vizzari è emerso il valore della sperimentazione, del connubio tra arte e cucina con i suoi (finalmente) sorprendenti risultati, l’antica usanza di mangiare utilizzando le mani per vivere l’esperienza con il cibo nella sua interezza e infine una competente analisi sulla cucina italiana, le sue tradizioni, i protagonisti, e la necessità di popolare il mondo dell’enogastronomia di figure professionali caratterizzate da grande competenza. Una riflessione, quest’ultima sulla tradizione culinaria del nostro paese, davvero interessante: secondo Vizzari il segreto per riuscire a proporre una cucina alta e contemporanea, che possa al tempo stesso valorizzare la gastronomia nostrana senza banalizzarla, consiste nel conoscere in maniera approfondita la tradizione ma utilizzarla solo quale trampolino di lancio, per non farsi imbrigliare da essa stessa. In un’epoca contraddistinta dai ripetuti racconti, spesso troppo simili, sul fondamentale ruolo che hanno svolto le nonne nella vita degli chef e nel loro avvicinamento alla cucina, il direttore delle guide de L’Espresso mette metaforicamente le nonne da parte, per trasformarle nelle fondamenta su cui costruire una nuova e moderna cucina italiana.

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