Datemi retta: se fate la Carlo Felice – la strada centrale della Sardegna, quella che congiunge Cagliari con Sassari – fermatevi per qualche ora a Santu Lussurgiu. E’un paese di circa 2500 anime, situato in una zona che risulterà improbabile e forse, tuttavia, stupirà non poco, quella parte dell’immaginario collettivo che identifica la Sardegna solo ed esclusivamente con le sue coste. Belle quanto si vuole, e forse ancora di più. Ma il cui splendore non inficia minimamente quello dell’interno. E Santu Lussurgiu, ricompreso da poco nell’ambito della Provincia di Oristano,occupa, nella graduatoria, un posto di assoluto rilievo. Ci si arriva percorrendo una deviazione il cui innesto è situato poco dopo Oristano, seguendo le indicazioni per Bonarcado. Oppure, proseguendo sino ad Abbasanta, si incontra un’altra deviazione le cui indicazioni segnalano proprio il paese di destinazione.
Cresciuto nel corso di innumerevoli secoli in un cratere di vulcano, Santu Lussurgiu ha, proprio per questo, una sua fisionomia particolarissima. Moltissime delle sue case – quelle costruite prima che un esercito di Ingegneri modernisti e di Geometri molto meritevoli, ma privati della cultura tradizionale della zona da una Scuola del tutto inadeguata alla bisogna, perché del tutto priva di contenuti architettonici specifici – hanno l’ingresso a livello di strada, ciò che induce il visitatore inesperto a supporre, di primo impatto, che quelle abitazioni siano tutte costrette su di un unico piano, piuttosto piccolo, per di più. Quando si entra dai portoni di castagno o rovere massiccio, si scopre invece che le ripide pareti dell’antichissimo cratere hanno fatto si che a quell’unica, striminzita costruzione, corrispondessero tre-quattro piani degradanti, a configurare la facciata opposta. Considerato che – come è ovvio, trattandosi di un ambito vulcanico – abbondano il basalto e la trachite, le mura sono costruite con conci di pietra scura inframmezzati da rari lampi di rosso e di giallo. E per via del ricchissimo contesto ambientale, dove la fanno da padroni il castagno e la quercia, con netta prevalenza del rovere, i pavimenti sono fatti molto spesso di tavolati scuri e lucidi, tirati a cera dalle mani di generazioni intere di donne.
Al centro, trovate “Sas Benas”. Si tratta di un albergo diffuso, la cui superficie abitativa è compresa tra le mura di quattro antiche case recuperate in modo difficilmente superabile. Il buon gusto alla base della progettazione del riordino, la cura costante nel recupero della tradizione, l’utilizzo dei materiali – quelli già descritti, oltre ad una profusione di ferro battuto, di manifattura rigorosamente artigianale – denunciano chiaramente le doti del Titolare, un docente di musica la cui cultura specifica armonizza in modo straordinario con l’amore per la tradizione, resa ancora più acuta da giorni come quelli che viviamo, nei quali l’ideale costruttivo sembra essere simbolizzato dall’alluminio anodizzato e dalle pareti ricoperte di starti e strati di plastica. Alcuni elementi architettonici estranei (degli archi deliziosi, il pavimento recuperato di un’antica Chiesa quattrocentesca irrimediabilmente crollata per insipienza ed incuria) adottati tuttavia con corretta parsimonia, impreziosiscono delle strutture che fanno percepire tutto l’amore per la casa e per la sua confortevolezza: la stessa che caratterizzava gli antichi abitanti, vissuti in epoche nelle quali quegli edifici si identificavano nel microuniverso esclusivo di ognuno di loro, il Tempio esclusivo nel quale essi trovavano calore e protezione.
Nell’edificio principale trovano luogo il Ristorante ed alcune camere, situate su diversi livelli congiunti da brevi scale. La maggior parte delle stanze sono invece situate nelle tre dépendances. Gli arredamenti della parte abitativa richiamano antichi usi e costumi, pur senza rinunciare minimamente ai comfort, tutti i comfort, richiesti alle attuali ricezioni alberghiere. Le pareti sono adornate da una bella scelta di quadri di pittori sardi di grande qualità. Negli ambienti comuni fanno bella mostra di sé alcuni strumenti musicali di notevole pregio, tra i quali due splendidi clavicembali.
La sistemazione dei tavoli, nel Ristorante, cura molto bene la comodità e la riservatezza degli ospiti, pur in una corretta logica di socialità. Il tovagliato molto bello fa pendant con le stoviglie e la cristalleria. Un sottofondo musicale mai fastidioso, basato su brani classici, da Mozart a Bach, passando per Vivaldi ed accenni di Beethoven, accompagna un pranzo che rispetta in pieno la tradizione, pur con l’introduzione di alcuni geniali elementi d’inventiva innovativa. Mi sono stati ammanniti, quando ho avuto la fortuna di esserne ospite, alcuni antipasti rigorosamente “di terra”, tra cui un delicatissimo prosciutto di cinghiale, funghi sott’olio, carciofi, piccoli bocconi di formaggio ed uno straordinario mix di castagne e piccoli fagioli con l’ansa nera, di origine tanto povera quanto antica. Due assaggi di primi consistevano in una “fregula” con porcini tanto delicata quanto profumata ed in alcuni ravioli di ricotta e biete selvatiche, arricchiti da un condimento di salsiccia ed altri straordinari quanto misteriosi ingredienti. Quattro altri assaggi, stavolta di carne, comprendevano uno stufato di cinghiale al vino, del porchetto arrosto ed una tagliata di manzo con ruchetta e scaglie di parmigiano, oltre ad una finanziera di interiora, anch’essa nel più perfetto alveo della tradizione. Completavano il pranzo due porzioni di semifreddo, uno dei quali al mirto e l’altro ai fichi d’india. Pane casereccio e “carta da musica”. Vino rigorosamente rosso, di proprietà. Santu Lussurgiu, poi, è considerata una delle più accreditate patrie del “fil’ ‘e ferru”. Liquore che non è facile ridurre al semplice ruolo di ammazzacaffè, con buona pace degli etilometri. L’unica precauzione da curare è quella di prendersi congrue quantità di tempo da dedicare allo smaltimento. Se riesci a smaltire. Perché un bicchierino di quel liquido trasparentissimo tira l’altro…
E’ considerato quasi offensivo chiedere dell’acqua imbottigliata: quella delle sorgenti circostanti, che corrono in vene scavate dal tempo nel terreno e nelle rocce vulcanici sono di purezza, di leggerezza e di sapore semplicemente perfetti.
Unico difetto, ma inevitabile, data la conformazione del luogo: è praticamente impossibile l’accesso al Ristorante, se non a braccia, di disabili.
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Se volete anche concedervi un po’di turismo colto, vi suggerisco di fermarvi, lungo strada, a Bonarcado, se venite da Cagliari, per guardare due Chiese, una più grande ed una piccolina, ma proprio piccolina, dedicata a Santa Maria di Bonacatu. La prima è romanica e straordinariamente bella. La seconda, del 1230, è un gioiellino nel quale è compreso, tra l’altro, un fonte battesimale a forma di vasca, grande, destinato ai protobattesimi operati per immersione completa dei battezzandi. Se poi voleste vedere anche qualcosa di difficilmente dimenticabile, quando andate via dal Ristorante, scendete a San Leonardo di Siete Fuentes: nel bel mezzo di una natura che ricorda un po’ l’Umbria, ma in bello, vicino a Sette Fonti, appunto, di acqua cristallina, potrete visitare una Chiesetta ancora quasi intatta, affidata alla cura dei Cavalieri di Malta, i quali, per quanto abbiano fatto, non sono riusciti a nascondere del tutto le origini Templari di quella piccola meraviglia.
Gianfranco Giorgini