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I Castelli Romani

Adriana Angelieri

di Martino Ragusa.Rigatoni cacio e pepe, spaghetti alla carbonara, coratella, trippa e puntarelle. Forse in nessun’altra parte d’Italia la ristorazione ha mantenuto l’impronta casalinga e gioviale come nelle cittadine dei Castelli Romani.Ad Ariccia e Frascati sopravvivono ancora le fraschette, osterie dove per pochi euro si mangia bene e alla buona, senza nulla concedere ai comandamenti gastronomici ed estetici di oggi. E cioè “cofane di pasta” che non sapreste dire se è più buona o tanta, abbacchio a scottadito e salsicce orgogliose di contare solo sulla sostanza prive del maquillage di ravanelli scolpiti e reticoli di erba cipollina. Ma forse la stessa parola “gastronomia” è eccessiva. Quasi stride con il voluto basso profilo di questa cucina testardamente familiare.Qui “se parla come se magna” e l’impressione è proprio quella di una cucina dialettale, semplice e arguta come una battuta romanesca.I Castelli Romani sono tutto questo, ma non solo. Non fosse per la vicinanza con Roma, sarebbero una meta turistica di importanza primaria, per la bellezza del paesaggio e per la ricchezza di un patrimonio artistico sorto nei millenni, da quando i patrizi romani cominciarono a costruire qui le loro residenze estive arricchendole di ville magnifiche, da sempre simboli di status. Dopo venne il turno delle famiglie aristocratiche, dei cardinali e dei papi, e forse furono proprio le dimore sontuose e sproporzionate rispetto alle modeste abitazioni dei piccoli centri collinari a ispirare al popolo il nome altrimenti ingiustificabile di “Castelli”, visto che qui non c’è neppure l’ombra di una torre merlata o di un ponte levatoio. Oggi i romani ricchi continuano a usarli come quartieri residenziali di lusso, oasi di vivibilità alternative al caos della metropoli.Quelli che a Roma devono o vogliono restare, li considerano come un’enorme trattoria diffusa da prendere d’assalto durante le scampagnate fuori porta. Solo qui, nelle fraschette, possono ritrovare quel modello di ristorazione economico, “dialettale” e “de core” tanto amato dai romani e sempre meno presente nei quartieri una volta popolari come Trastevere. Solo qui menu e prezzi sembrano non accorgersi del passare degli anni. Niente elaborazioni, attualizzazioni, ricerche e “fusion”.Ogni piatto ha il suo nome di sempre, e a questo corrisponde un contenuto prevedibile, senza sorprese e abbondante. E cioè porchetta, salame, pecorino, prosciutto, olive, spaghetti all’amatriciana e spaghetti alla carbonara, pappardelle al cinghiale, pasta cacio e pepe, pasta alla gricia, fettuccine al sugo di garofolato, gnocchi, polenta, carciofi alla romana (ripieni di pane grattugiato, prezzemolo, acciughe, sale e pepe), fave col guanciale, salsicce, abbacchio, arrosticini di pecora e altri piatti della tradizione romana a seconda della stagione.I Castelli sembrano rassegnati all’immeritato ruolo “di servizio” e all’identità schizofrenica che la capitale ha deciso per loro. Ospitano le nuove ville dei potenti di oggi – calciatori, attori, politici e televisivi in testa – ma continuano a sfamare trasversalmente i gitanti romani con pranzi a 10 euro nelle fraschette e panini con la porchetta nei chioschi. Rimangono poco numerosi i turisti, attratti da una città troppo vicina, importante e capace di trattenerli con i suoi mille richiami fino al momento della partenza per Napoli o Firenze.Con la cucina dei Castelli non correte il pericolo di nessuna salsina ambigua. Nessuno ve la proporrà accanto a una fetta di quelle porchette arrostite intere con il classico limone in bocca. Sembrano elementi scenografici per un film ambientato nell’Antica Roma, e in realtà i romani erano grandi mangiatori di una porchetta pressoché uguale a quella che mangiamo oggi, pare che Nerone ne fosse ghiottissimo. Gli ingredienti sono sempre quelli: un maialino di sessanta/settanta chili, sale, pepe, aglio, e aromi a scelta tra finocchio selvatico o rosmarino a seconda del norcino che l’ha preparata.L’unica variazione in millenni è l’abitudine attuale di disossare il maialino e legarlo per poterlo poi vendere a fette.Anche i procedimenti di cottura sono identici, con i maialini sistemati su cavalletti e infornati per circa tre ore. Oggi, però, vengono fatti raffreddare in un locale munito di aspiratori a soffitto che permettono la dissipazione dei fumi e dei vapori di cottura che inquinerebbero la fragranza delle carni.Benché sia diffusa in tutti i Colli Albani (antico nome dei Castelli Romani) e in Ciociaria, la patria indiscussa della porchetta è Ariccia.Basta girare per le strade del centro per vederla spuntare dalle vetrine delle rosticcerie e delle salumerie, o stesa sulle spianatoie di bancarelle e chioschi. La ragione di tanta vocazione va cercata nelle antiche condizioni ambientali della città, una volta immersa fra boschi di querce – il cosiddetto “barco” – popolati da branchi di suini allo stato brado.Se pensate che la porchetta sia micidiale per il livello del vostro colesterolo, vi sbagliate. Grazie a una temperatura di cottura che raggiunge 300 gradi, la maggior parte dei grassi si scioglie, cola e lascia la carne pressoché magra.Senz’altro impegnativi, invece, sono gli zampetti di maiale che qui usano cuocere sotto la porchetta nel grasso di colatura. Per affrontarli occorre un coraggio non indifferente, e devo ammettere che ho faticato non poco per decidermi a un assaggio che però mi ha deliziato.La porchetta si gusta fredda, con pane di Genzano e vino dei Castelli. Viene venduta a peso e non “a panino”, quindi potete decidere quanto ricca dovrà essere la farcitura del vostro delizioso sandwich. E ricordate che la parte più ghiotta è la cotenna, lucida, croccante e meno grassa di quanto si possa pensare sempre per via della colatura dei grassi. Il prelibato pane di soccia, Genzano (Rm)A Genzano troverete uno dei pani più buoni d’Italia, non a caso è il primo ad avere ottenuto il marchio di tutela europeo IGP. Per trovarlo non avrete nessuna difficoltà, in questa piccola città ci sono ben 18 forni, molti dei quali ancora a legna (qui li chiamano “socce”) che sfornano più volte al giorno pagnotte e filoni impregnando l’aria di un odore che ormai è diventato tipico di Genzano. Che sia un pane con qualcosa di speciale lo si capisce ancora prima dell’assaggio. Ha una crosta scura e spessa in forte contrasto con un interno bianchissimo. Inoltre, come tutti i pani di origine contadina e ancora preparati con i vecchi sistemi di panificazione, si mantiene buono per 3-4 giorni, durante i quali anziché indurirsi riesce addirittura a migliorare il sapore e ad assumere una consistenza anche più gradevole.I segreti di tanta bontà sono davvero pochi e me li ha svelati Franco Ripanucci del forno “Moretto” con cui ho scambiato due chiacchiere pericolosamente, schivando l’andirivieni del lungo manico della sua pala. Ma stava sfornando e non poteva certo interrompere la delicata operazione per soddisfare le mie curiosità.“Tutto sta nel continuare a fare il pane come si è sempre fatto da secoli.” Mi ha detto Franco inseguendomi con la sua pala. “Usiamo lievito naturale, che rinfreschiamo tutti i giorni con acqua e farina, e con questo facciamo il panetto che fa da innesto. Cioè lo uniamo a farina doppio zero, acqua e sale, impastiamo e poi facciamo lievitare per 3 ore. Alla fine della lievitazione cuociamo nel forno a legna. I tempi sono lunghi. Pensi che se usassi un forno elettrico e il lievito chimico che permette una lievitazione rapida, riuscirei a fare dieci volte il pane che riesco a fare con il metodo tradizionale. Ma noi lavoriamo così, all’antica.Anche quello moderno è un buon pane, per carità, ma di sicuro non si mantiene per più giorni come questo”.Io posso aggiungere che non è solo questione di durata, ma anche di odore che ricorda quello dei granai e di un sapore gradevolmente intenso e totalmente privo di sentori chimici. È croccante fuori, grazie alla crosta scura spessa almeno 3 millimetri, e candido all’interno, con una mollica morbida e spugnosa.Per via dei fermenti naturali del lievito-madre, il pane di Genzano va considerato un prodotto vivo. Perciò non può essere né incelofanato né posto sotto vuoto, ma conservato all’aria avvolto in un panno. Così può continuare a vivere per 3-4 giorni mantenendosi morbido e addirittura migliorando.Il Forno “Moretto” è in via Don Minzoni a Genzano di Roma.A pochi passi dal forno “Moretto” c’è la norcineria Azzocchi che vi consiglio di visitare. I salumi sono tutti di produzione propria e artigianale oltre che realizzati esclusivamente con suini italiani. Danilo, il proprietario, è un vero appassionato del suo lavoro ed è molto fiero di avere mantenuto una tradizione familiare che risale al 1830. Nel negozio potete trovare il Prosciutto di montagna fatto da Danilo e stagionato dai 13 ai 16 mesi, la porchetta, i guanciali per l’amatriciana, le pancette, le salsicce tipo “Siena”, le coppiette di cavallo e di suino e gli zampetti cotti. Tutti i salumi sono fatti con solo carne, sale, spezie e aromi senza nitriti né nitrati.L’indirizzo è:Norcineria AzzocchiCorso Don Minzoni 47Genzano di Roma (Rm)Tel. 06 93 96 553Per la cena e il pernottamento vi consiglio di puntare all’Agriturismo Iacchelli, a Velletri.Questo l’indirizzo:Agriturismo IacchelliLocalità Protone15° Km. Via dei Laghi00049 Velletri (Roma)Tel. 06 96 33 256Di solito le fraschette sono tutte concentrate nelle stesse vie. Lascio a voi il divertimento di scegliere quella giusta giudicando la sua fedeltà alla tradizione dall’arredo del locale.Scegliete quelle con le tavolate comuni, con le tovaglie di cerata o di carta e con una proposta di menù intorno ai 10 euro, massimo 15.Le fraschette sono più numerose ad Ariccia. Le strade dove potete trovarle sono Via Borgo S. Rocco, che ne conta più di una dozzina e via dell’Uccelliera che ne ha sette.A Frascati si trovano in Via Regina Margherita. Sono anche presenti, meno numerose, a Genzano, Grottaferrata, Monte Porzio Catone, Rocca di Papa, Velletri, Colonna, Lanuvio, Marino, Monte Compatri.Esiste anche un sito internet molto divertente e utile dove trovate non solo informazioni di tutti i tipi sulle fraschette, ma addirittura una top ten delle più votate e una raccolta di giudizi di chi le ha visitate.L’indirizzo è: http://www.fraschette.com

Siciliana trasferita a Bologna per i tortellini e per il lavoro. Per Il Giornale del Cibo revisiona e crea contenuti. Il suo piatto preferito può essere un qualunque risotto, purché sia fatto bene! In cucina non devono mancare: basilico e olio buono.

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