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A Bologna esiste L’Altro Spazio, un locale completamente accessibile “dove si respira aria di normalità”

Alessia Rossi
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    L’inclusione dovrebbe essere un diritto, non un privilegio. Un diritto ad avere accesso a un lavoro dignitoso, ad esempio. Cosa che per chi ha una qualche forma di disabilità sembra invece ancora molto difficile, se non impossibile. Come ha evidenziato l’ISTAT a marzo di quest’anno, infatti, considerando la popolazione italiana tra i 15 e i 64 anni, nel 2019 è risultato occupato solo il 32,2% di coloro che soffrono di limitazioni gravi contro il 59,8% delle persone senza limitazioni. Quindi, ecco perché progetti come Frolla, il micro-biscottificio sociale di Osimo, o PizzaAut, che permette a ragazzi con autismo di lavorare nel mondo della ristorazione, sono quanto mai necessari.

    Ma non solo perché, oltre alla sfera lavorativa, anche quando si tratta di qualcosa che – sulla carta – dovrebbe essere scontato, come uscire la sera e andare al bar o in un ristorante, la discriminazione delle persone con disabilità è – purtroppo – all’ordine del giorno.

    Tutto questo lo sa bene Nunzia Vannuccini, presidente dell’associazione FARM, che, insieme al marito Jascha Blume, artista e filmaker olandese sordo, hanno deciso di aprire a Bologna, ormai nel lontano 2015, un luogo dove si potessero abbattere tutte le barriere – fisiche e non – e dove non sentirsi diversi. L’hanno chiamato L’Altro Spazio, ed è stato il primo locale in Italia accessibile a tutti e tutte, in cui l’altro – in tutte le sue forme – è valorizzato. Per farci raccontare più da vicino questo luogo abbiamo intervistato Nunzia.

    L’Altro Spazio, un locale completamente accessibile dove fare esperienza dell’altro

    Si trova in via Nazario Sauro a Bologna, ed è di più di un semplice locale. Si tratta infatti di un luogo unico, di aggregazione sociale e culturale, perché prima del Covid si organizzavano esperienze sensoriali, cene al buio, spettacoli, incontri di sensibilizzazione e tanto altro. Insomma, uno spazio che apre davvero le porte a tutti e tutte, sia a persone con disabilità che non.

    E hanno scelto di chiamarlo così – L’Altro Spazio – proprio per evidenziare questo aspetto: “il concetto è quello dell’altro diverso da me” inizia a raccontare Nunzia. “Altro riferito quindi a un’altra persona che non sono io, ma allo stesso tempo anche a un luogo che di solito non frequento e non conosco. Purtroppo, non siamo abituati infatti a fare esperienza dell’altro, quindi questo locale nasce proprio per questo, perché oltre a permetterti di incontrare persone diverse è inteso anche come un luogo che può essere diverso e che può avere sfumature nuove per dare la possibilità a tutte le persone di poterlo frequentare. Chi entra qui dentro e magari lo frequenta da tempo ha ormai quella visione di naturalezza nei confronti all’altro che normalmente non abbiamo e invece dovremmo iniziare a sperimentare già a partire dei banchi di scuola”.

    © L’Altro Spazio

    Ma da dove è nata l’esigenza di creare appunto un luogo in cui poter fare esperienza dell’altro? “Tutto è partito da un progetto di riqualificazione del Parco 11 settembre 2001, nel 2010” racconta Nunzia. Grazie a quel progetto, ha avuto la possibilità di conoscere persone che comunicavano con la lingua dei segni (LIS). “Non avevo mai incontrato prima la lingua dei segni e da quel momento si è aperto un capitolo nuovo della mia vita. Da lì abbiamo iniziato a collaborare con persone con sordità  e a creare degli eventi a loro dedicati. All’epoca non avevo ancora imparato la lingua dei segni, anzi: era un qualcosa che non pensavo che avrei mai imparato nella mia vita. Piano piano, il progetto è cresciuto e abbiamo iniziato a collaborare anche con il Bar Senza Nome. In quel percorso, però, osservando ciò che accadeva, mi sono resa conto che le persone comuni non hanno idea delle difficoltà che toccano con mano tutti i giorni le persone sorde e non conoscono affatto la LIS. Allora mi sono chiesta: come far arrivare quello che stavo vivendo al mondo? Volevo trovare un modo per raccontarlo e trasmetterlo a tutti e tutte, non solo per quanto riguardava la disabilità delle persone sorde, ma anche per altre. Così ho pensato di poter fondare un luogo dove potessero convivere tutte insieme e questo luogo è l’Altro Spazio”.

    Accessibilità, inclusione e formazione continua

    L’Altro Spazio, quindi, è un luogo accessibile per venire incontro a ogni forma di disabilità, in cui gli ambienti sono adattati alle persone e non il contrario. Ad esempio, allargando e abbassando l’altezza del bancone del bar, per non escludere clienti e dipendenti in sedia a rotelle. O ancora, menu scritti in braille e mappe tattili per capire come orientarsi, tavoli distribuiti per facilitare i passaggi, strutture fisse e stabili, spigoli e angoli ridotti. Chiunque qui è accolto, ma non solo per bersi una birra o gustare la proposta gastronomica: infatti, lo staff è composto al 50% da persone con disabilità.

    Come racconta Nunzia, parlandoci ad esempio di Manuela, una ragazza in carrozzina che ora non lavora più lì perché si è laureata e ha trovato un altro lavoro per cui ha studiato. O di Chiara, ragazza focomelica che spillava la birra con un braccio o di Michele, ipovedente. “I primi anni abbiamo lavorato sul tessuto umano, sulle persone. Su quelle che sono le mie capacità e quelle degli altri e abbiamo provato a dire, ‘mettiamole insieme e vediamo cosa possiamo fare’”.

    Tutto lo staff – con disabilità e non – ha fatto un lungo percorso di formazione, anche sulla lingua dei segni ed è preparato anche per gestire clienti ipovedenti.

    © L’Altro Spazio

    “Abbiamo poi adattato tutto e cerchiamo ancora di migliorare, per rendere tutto accessibile alle persone sorde, ipovedenti e per chi ha altre esigenze”. Per gli impiegati ipovedenti che lavorano in cucina, ad esempio, l’illuminazione è stata incrementata e gli ordini sono scritti in caratteri più grandi. Oppure, “per le persone sorde prediligiamo la penna, perché ci siamo resi conto che i clienti fanno fatica ad approcciarsi. All’inizio, avevo inventato una bacheca che era ‘l’angolo del cocciuto’. In pratica, i clienti entravano, prendevano il biglietto con scritto sopra il corrispettivo di ciò che volevano ordinare e lo portavano al barman, che è sordo. Questo l’avevamo fatto per facilitare tutti, ma poi abbiamo deciso di eliminarla e di lavorare sull’impatto che dà conoscere appunto una persona diversa da noi. Perché questo escamotage era un modo di schermarsi e di difendersi con un biglietto con scritto ad esempio ‘Spritz’: si evitava quindi di affrontare una persona che, semplicemente, parla una lingua diversa dalla mia”.

    Come ci tiene a ribadire Nunzia, quindi, L’Altro Spazio è un luogo in continua trasformazione ed evoluzione. “Continuiamo a lavorare sull’aspetto dell’accessibilità. Non possiamo dire di aver creato un modello finito, perché l’esperienza di questo locale è ancora in essere. Di esperienze pratiche di disabilità e inclusione ce ne sono ancora tante da raccontare e cercheremo di farle”.

    L’Altro in cucina

    cucina altro spazio

    laltrospazio.bologna/facebook.com

    L’altro come persona e come luogo, quindi. Ma anche come altro nel mondo: “quindi, chiunque sia diverso culturalmente, anche a livello gastronomico”. Uno degli aspetti più interessanti di questo locale, infatti, riguarda anche l’offerta gastronomica: si organizzano gli “aperitivi dal mondo”. “Le persone che sono invitate portano la loro cucina, e quindi abbiamo avuto esperienza di cucina congolese, peruviana e così via”. Inoltre, la sensibilità e l’attenzione passa anche attraverso la scelta gastronomica: “Noi privilegiamo una cucina prevalentemente vegetariana e una scelta di una materia prima buona, di qualità” e, come ci racconta, da gennaio ci saranno gustose novità.

    Un luogo dove si respira aria di normalità

    Quindi, cosa si deve aspettare una persona entrando all’Altro Spazio?

    “Quello che non ci si aspetta: la normalità. L’invisibilità totale del progetto. Tu entri all’Altro Spazio e non ti rendi conto di quello che c’è dietro. Lavoriamo tantissimo con le piante, e infatti sembra un po’ di essere in una giungla. Abbiamo creato uno spazio bello e accogliente, in cui c’è sempre musica, jazz soprattutto, ma in generale proposte musicali che provengono da tutto il mondo. Però, la cosa che le persone si aspettano di trovare e poi restano un po’ sorprese è proprio la normalità: è un locale curato ma comune. L’idea che vogliamo portare avanti è proprio quella di creare luoghi – a Bologna ma anche in altre città –  che siano belli, accessibili e inclusivi. Non serve creare cose visibilmente accessibili, perché non è quello l’obiettivo. Vedere l’accessibilità non serve, bisogna viverla e dare la possibilità di sperimentarla”. Concetto su cui anche altri progetti in altre parti d’Italia, per fortuna, stanno cercando di portare avanti, come il primo ristorante self-service a Reggio Emilia, RITA Pieve, o il primo supermercato autism-friendly a Monza.

    Nunzia e Jascha, infatti, cercano di abbattere il concetto di inabilità. Chi è “inabile” lo è solo perché il mondo intorno a lui è inaccessibile, e per loro questa ora è – e dovrebbe essere per chiunque – la normalità. “Quando usciamo dall’Altro Spazio ed entriamo in altri luoghi, vediamo chiaramente quel distacco molto amaro, che ci ferisce. C’è bisogno di portare fuori esperienze di questo tipo, perché l’Altro Spazio non è solo un luogo ma un’esperienza, un qualcosa che va portato dappertutto e replicato”.

    Ci auguriamo allora che luoghi come l’Altro Spazio possano diventare presto la normalità di tutti i luoghi in cui entriamo, per far sì che tutti abbiano le stesse possibilità, anche per fare semplicemente un aperitivo.

    Conoscevate questo locale?

    È nata vicino a Bologna, ma dopo l'università si è trasferita a Torino per due anni, dove ha frequentato la Scuola Holden. Adesso è tornata a casa e lavora come ghost e web writer. Non ha molta pazienza in cucina, a parte per i dolci, che adora preparare insieme alla madre: ciambelle, plumcake e torte della nonna non hanno segreti per lei. Sta imparando a tirare la sfoglia come una vera azdora (o almeno, ci prova).

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