Siamo fuori dalla crisi economica?

Giuliano Gallini

Ci sono i segnali: da un mese a questa parte alcuni analisti parlano di forte ripresa nel 2015. Il basso prezzo del petrolio, la svalutazione dell’euro, la discesa costante dei tassi di interesse e il perdurare delle politiche di espansione della massa monetaria della Bce si aggiungeranno all’inevitabile rimbalzo che è legittimo aspettarsi dopo tre anni di seguito di variazioni negative. Sì, è ragionevole pensarlo: anche Expo spingerà l’economia italiana.

Bisogna però evitare che questo risultato si riveli una effimera illusione come è già accaduto nel 2010 e nel 2011, quando finalmente, dopo il biennio nero 2008-2009, l’Italia ha avuto un Pil in crescita,  ma è ricaduta subito dopo nella recessione che l’ha lasciata per tre anni di seguito con il segno meno. La crisi, evidentemente, non era stata davvero superata. Si trattò solo di un rimbalzo, niente di più. Che cosa occorre fare perché il naturale ciclo positivo del 2015 non si esaurisca subito? Come cogliere questa opportunità per stabilizzare una crescita duratura ed equilibrata dell’economia e del benessere degli italiani?

Quale crisi?

Per rispondere a questa domanda, occorre probabilmente fare un passo indietro e capire quando e perché la crisi ha avuto inizio.

Il periodo dal 1989 al 2008 è stato caratterizzato da una tendenza espansiva dell’economia e della società. Nel 2008 questa situazione si è bloccata. Da allora stiamo affrontando una crisi finanziaria particolarmente complessa che è allo stesso tempo una crisi internazionale, una crisi europea e una crisi italiana, come è normale che sia: a causa dell’accresciuta interdipendenza mondiale (e della globalizzazione) non è più possibile circoscrivere il luogo e la portata di una crisi economica.

crisi economica globale

Quando l’economia sfugge alla politica

L’economia ha ormai raggiunto un livello di astrazione e di sregolatezza tale da diventare una realtà a sé stante, difficilmente controllabile e gestibile con gli strumenti della politica. La deregulation degli anni ‘80, come direbbero Reagan e la Thatcher, è stata un processo di snellimento e riduzione delle regole e delle leggi che disciplinano il sistema finanziario, ma ha portato ad una crescente finanziarizzazione dell’economia, favorita dall’internazionalizzazione del sistema produttivo.

La deregulation, in altre parole, ha amplificato gli strumenti finanziari, al punto da creare una sorta di sovrastruttura finanziaria che schiaccia l’economia reale. Ingenti capitali, sia in euro che in dollari, si sono così spostati dal mondo della produzione a quello della finanza, sottraendo dunque risorse preziose che avrebbero potuto, altrimenti, essere usate per creare ricchezza e sviluppo. Questo sistema è intrinsecamente instabile e pericoloso per l’espansione dell’economia reale, e non risponde a nessuna regola economica e tanto meno politica.

Quale innovazione intellettuale?

 

Il problema da affrontare non è solo quello di ridimensionare, riformare e rendere la finanza nuovamente funzionale alla produzione. Se paragoniamo la crisi del 2008 a quella del 1930, notiamo subito un’ allarmante mancanza di innovazione intellettuale.

Non solo non siamo in grado di trovare delle soluzioni efficaci alla crisi, ma neanche di fornirne un’ interpretazione univoca.

Nel 1930, infatti, la crisi fu seguita da un vivace e intenso dibattito economico e culturale per cercare di spiegarla, di trovare delle vie di uscita e di elaborare sistemi che ne impedissero il ripetersi. Si potrebbe obiettare che le due crisi economiche hanno una natura molto differente. E’ vero, ma è innegabile che gli sforzi fatti per interpretare e risolvere quella attuale sono stati inefficaci: le analisi sono confuse e gli economisti sembrano attratti solo dalla palla di vetro dell’indovino, perché passano da una previsione – sbagliata – all’altra invece di dedicarsi a diagnosi e cura di un mercato malato. Keynes e von Hayek ci guardano insomma da cartoline ingiallite e incitano i loro eredi a essere più adeguati.

Due modeste proposte

economia nuovo inizio

Tra le tante proposte economiche in circolazione ne scelgo due che mi sembrano, per la loro profondità, più adeguate di altre a cogliere la natura del problema, a incidere sul mercato non con misure congiunturali ma più strutturali.

Secondo l’economista Hazel Henderson, il denaro non può monopolizzare il processo di allocazione delle risorse, e l’attuale sistema di accesso al denaro e al credito dovrebbe essere democratizzato. Il sistema finanziario dovrebbe essere ridimensionato e tornare a svolgere la sua funzione originaria, cioè quella di fornire gli strumenti d’intermediazione e d’interrelazione per favorire la produzione e la crescita reale di beni e servizi. Inoltre, l’economia dovrebbe tornare a essere uno strumento della politica e non una delle cause della sua determinazione.

La seconda interessante proposta ci arriva da Thomas Piketty, secondo il quale non ci sarà una ripresa duratura e prospera se non si pone mano alle disuguaglianze. La questione della distribuzione dei redditi va rimessa al centro dell’analisi economica, altrimenti la stortura di un eccesso di concentrazione di ricchezza in poche mani (concentrazione che si è fortemente accelerata negli ultimi vent’anni) metterà a rischio la stessa convivenza civile dell’Occidente.

Scrittore di romanzi, lettore appassionato ed esperto del mondo del cibo e della ristorazione. Crede profondamente nel valore della cultura. In cucina non può mancare un buon bicchiere di vino per tirarsi su quando sì sbaglia (cosa che, afferma, a lui succede spesso).

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