Un piatto di pasta condito con il ragù, una fetta di torta preparata dalla nonna, il profumo di pane appena sfornato: alcuni cibi hanno il potere di farci sentire immediatamente meglio, ed evocano una sensazione di benessere e nostalgia. Vengono chiamati comfort food, ovvero “cibi di conforto”, perché legati a ricordi felici, momenti di condivisione o semplicemente alla capacità di appagare i sensi.
Ma cosa rende alcuni alimenti più “consolatori” di altri? La risposta non è solo soggettiva, ma è legata a psicologia, biochimica e cultura. Da un lato, il comfort food è associato a esperienze personali e rituali familiari; dall’altro, ci sono infatti basi scientifiche che spiegano perché certi ingredienti influenzano l’umore e il benessere. Quindi come funziona il legame confortevole tra cibo ed emozioni? Cosa sappiamo dei meccanismi fisiologici che ci fanno percepire certi alimenti come rassicuranti? E in che modo l’idea di comfort food si lega alla cultura?
Il legame tra emozioni e cibo: perché il comfort food ci consola?

Partiamo dal comfort food per eccellenza, quel cibo o quella preparazione che per ciascun individuo è associato all’infanzia. Molti studi dimostrano che le esperienze alimentari precoci giocano un ruolo fondamentale nella formazione delle preferenze gustative e nelle emozioni legate al cibo. Un piatto cucinato da un familiare, un dolce mangiato in un’occasione speciale o un pasto tipico delle giornate di festa possono diventare, anche in età adulta, un rifugio emotivo nei momenti di stress o malinconia.
Il legame tra emozioni e cibo è supportato da meccanismi psicologici ben definiti. Secondo il professor Charles Spence dell’Università di Oxford (Inghilterra), il cibo è un potente strumento evocativo che stimola la memoria autobiografica e il senso di appartenenza. Il comfort food, quindi, richiama ricordi piacevoli e rassicuranti, e restituisce, anche a distanza di anni, un senso di sicurezza nei momenti di incertezza o di stress. Inoltre, le preferenze alimentari sono fortemente influenzate dal contesto in cui cresciamo. Negli Stati Uniti, per fare un esempio, il mac & cheese rappresenta uno dei comfort food per eccellenza, mentre in Italia lo è un piatto di lasagne o di pasta e fagioli.
Secondo uno studio pubblicato sulla rivista PLOS ONE, il comfort food è scelto soprattutto in situazioni di solitudine o bisogno di connessione emotiva. Chi si sente emotivamente stabile tende a consumarlo meno, mentre chi è sotto stress lo utilizza più spesso per regolare il proprio umore.
Il ruolo della biochimica: cosa succede nel cervello quando mangiamo un comfort food?

Se il comfort food fosse solo una questione psicologica, basterebbe immaginare un piatto per sentirsi meglio. In realtà, il potenziale effetto di questa “coccola” gastronomica è strettamente legato al gusto e a ciò che succede nel nostro corpo quando mangiamo esattamente quella pietanza o quel cibo.
Gli alimenti che contengono carboidrati, specialmente quelli complessi, favoriscono per esempio l’aumento della serotonina nel cervello, poiché aumentano i livelli di triptofano, un amminoacido essenziale per la sua sintesi. Il cioccolato, invece, è noto per attivare la produzione di dopamina, il neurotrasmettitore legato al piacere e alla gratificazione. Anche i cibi ricchi di grassi e zuccheri generano una risposta immediata di piacere perché attivano il sistema della ricompensa cerebrale, lo stesso coinvolto nelle dipendenze.
Studi di neuroscienze, come questo ripreso da Psychology Today, hanno evidenziato che il consumo di comfort food stimola le aree cerebrali associate alle emozioni positive. Ed è questa, dal punto di vista biochimico, la ragione per cui l’effetto potrebbe essere simile a quello di un abbraccio o di un’esperienza gratificante. Alcuni esperti suggeriscono, però, che il comfort food potrebbe non avere un impatto biochimico così forte, ma agire principalmente attraverso un meccanismo di aspettativa e associazione emotiva.
Comfort food nel mondo: cosa cambia nelle diverse culture?

Il concetto di comfort food è universale, ma le preferenze cambiano da Paese a Paese. In Italia, i piatti più amati per il loro valore affettivo sono spesso quelli della tradizione familiare, come la pasta al forno, la polenta e il tiramisù. Negli Stati Uniti, il comfort food per eccellenza è il già citato mac & cheese, seguito dal fried chicken o dalla cioccolata calda, mentre in Francia si preferiscono la soupe à l’oignon e il croque monsieur. In Asia, invece, piatti come il ramen giapponese, il congee cinese o il curry indiano svolgono la stessa funzione di “cibo coccola”. Anche in Sud America troviamo alimenti carichi di significato emotivo, come le empanadas e l’arroz con leche.
Il comfort food riflette le tradizioni culinarie, il clima e la disponibilità degli ingredienti. Nei Paesi freddi prevalgono i cibi caldi e sostanziosi, mentre nelle regioni tropicali si trovano più spesso pietanze dolci e speziate. Queste differenze sono legate al clima, appunto, alle ricette tipiche, alle tradizioni familiari e anche al ruolo sociale svolto dal cibo. L’elemento comune, infatti, è spesso l’associazione con la convivialità che, a qualsiasi latitudine, sembra stimolare il benessere.
Ma il comfort food fa sempre bene?

Il comfort food, per sua natura, è legato al piacere e alla gratificazione immediata. Tuttavia, non sempre rappresenta una scelta davvero consapevole e salutare. Molti di questi alimenti, infatti, sono ricchi di zuccheri e grassi, e un loro consumo frequente può avere ripercussioni sul benessere a lungo termine. Se da un lato regalano una sensazione di appagamento e calore emotivo, dall’altro possono innescare un circolo vizioso, spingendo a mangiare non per fame, ma per colmare un vuoto o placare uno stato d’animo difficile.
In questi casi si parla di alimentazione emotiva, ovvero quella tendenza a ricorrere al cibo come risposta automatica a emozioni spiacevoli come la noia, la solitudine, la rabbia o l’ansia. Secondo la psicologa Susan Albers, autrice specializzata sul tema e collaboratrice di Cleveland Clinic, “l’emotional eating è spesso un tentativo di anestetizzare un’emozione, più che un vero bisogno fisico di nutrirsi”.
Per ristabilire un rapporto più equilibrato con il cibo, può essere utile ricorrere a pratiche come il mindful eating, l’alimentazione consapevole. Questo approccio invita a prestare attenzione non solo a cosa si mangia, ma anche a come e perché si mangia: quali emozioni accompagnano il pasto? Il corpo ha davvero fame, o si sta cercando conforto in un momento di disagio? Il mindful eating insegna a rallentare, a riconoscere i segnali interni e a mangiare con presenza, senza giudizio.
Anche l’alimentazione intuitiva, sviluppata dalle nutrizioniste Evelyn Tribole ed Elyse Resch negli anni ’90, si muove in questa direzione. Basata su dieci principi — tra cui il rifiuto della mentalità dietetica, l’onorare la fame e la riscoperta della soddisfazione — promuove una relazione più libera e gentile con il cibo, lontana dalle logiche di restrizione o colpa. Negli ultimi anni, diversi studi hanno associato l’alimentazione intuitiva a un miglior benessere psicologico, minore rischio di disturbi alimentari e maggiore soddisfazione corporea.
In quest’ottica, il comfort food può continuare ad avere un ruolo positivo nella nostra alimentazione, a patto che sia scelto con consapevolezza. Riconoscere il valore affettivo di certi piatti è importante, ma altrettanto importante è distinguere tra il bisogno di nutrimento e il desiderio di evasione emotiva. È in questo equilibrio che il cibo può davvero diventare un alleato del nostro benessere, anche nei momenti più fragili.
E tu, hai un comfort food che ti riporta alla tua infanzia o che ti consola nei momenti difficili? Raccontacelo nei commenti!
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