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La Cucina Siciliana Tra Passato, Presente E Futuro

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Questo breve saggio è stato scritto in occasione del “Pellegrino Cooking Festival 2007” di Marsala e compare come prefazione al libro “Le Torri della Cucina – Vol. 4” di Gerardo Antelmo e Alessandra Capogna, Alieno editrice. Ringrazio la Carlo Pellegrino per averne concesso la pubblicazione sul Giornale del Cibo.

Facile, parlando di Sicilia, inciampare nella retorica. E non solo quando si fanno discorsi di alto profilo, ma anche quando si toccano argomenti lievi. Perché qui tutto ha un significato, tutto è linguaggio, e perciò capace di rimandare ad altro di diverso e più blasonato da sé.

E’ anche questione di Fortuna

Che sia una terra a tinte forti è risaputo. Il teatro della Sicilitudine è recitato sempre da primi attori, senza comprimari né comparse. In questo, non c’è che dire, è proprio erede legittimo del Teatro Greco dove neppure il Coro è sfondo ma anch’esso protagonista e pari fra pari.
Per questo è difficile capire la Sicilia e i siciliani. Perché tutto è importante, da “primo piano”. Sono qui a parlare di cucina, ma mi toccherà citare l’intenso melting pot etnico dal quale tutti noi siciliani discendiamo, così come dovrò disturbare la storia, l’antropologia, il paesaggio, la psicologia e il folklore.
Fra tanti nobili temi a disposizione, prenderò in considerazione per primo quello dall’apparenza più rarefatta: la Fortuna. Lo so che non sembra un grande argomento, ma l’ho appena detto che qui tutto è solido e tutto ha importanza.

In questo preciso momento storico, nel 2008, la cucina siciliana è soprattutto una cucina fortunata perché pur provenendo da un grande passato, si proietta in un futuro molto interessante. Attenzione: questa non è la norma. E’ vero che da buone radici si attingono insegnamenti, sicurezza e credibilità. Ed è anche vero che un solido passato è una condizione necessaria per un futuro altrettanto brillante. E’ una condizione necessaria ma non sufficiente. Perché se entra in gioco qualche variabile imprevedibile come lo stile di vita, quel bel passatone si può trasformare in una pesante zavorra capace di fare affondare la barca sotto il suo stesso peso. Basta guardare a cosa sta succedendo alla cucina francese, che magari non sta proprio affondando, ma di sicuro non solca mari tanto tranquilli proprio a causa di un glorioso passato stracolmo di grassi animali una volta osannati e raffinate salse burrose che poco alla volta hanno smesso di evocare raffinatezza perché lievi al palato e hanno cominciato a ricordare solo calorie in eccesso e accidenti vascolari.

La cucina siciliana, invece, si è trovata nel posto giusto al momento giusto. Il posto giusto è il centro del Mediterraneo, dove un clima straordinario fa crescere gli ortaggi più gustosi del mondo, gli ulivi danno gli oli più profumati, le uve vini preziosi e le erbe aromatichehanno le fragranze più intense. Ed è anche un luogo dove la gente è rimasta legata ai sapori del mare e della terra. Dove non si sono consumati quei tradimenti di stile alimentare che sono ormai consueti in tante altre parti d’Italia. In Sicilia la memoria delle vecchie mamme in cucina è ancora viva e le nuove mamme non hanno ancora disperso quei saperi.

C’è un fronte di resistenza armato di mestoli che riesce ancora respingere gli attacchi di un mercato che spinge all’omologazione del gusto. Con qualche vittima, questo è inteso, ma con un bollettino di guerra tutto sommato soddisfacente. Per esempio, in tutta l’isola ci sono 12 Mc Donald’s contro i 23 della sola Milano. Insomma, se è vero che anche qui i bambini frignano per l’hamburger globalizzato, è anche vero che i genitori li distraggono facilmente con un’arancina di riso.
Il momento giusto è quello di adesso, in cui tutto il mondo guarda al Mediterraneo come culla di quella dieta capace di regalare al medesimo tempo salute, tradizione e gusto.

Chi l’avrebbe mai detto che tutti si sarebbero messi d’impegno a copiare la poverissima pasta con l’olio, pomodorini e basilico? Che ci avrebbero invidiato le sarde fresche fresche ancora vendute a due euro al chilo a Ballarò? Tornassero al mondo i miei nonni che potevano permettersi di mangiare la carne rossa non più di tre volte l’anno penserebbero di essere capitati in un manicomio, ma si prenderebbero una grande soddisfazione!

In conclusione, la Sicilia è la palestra ideale per i principi della nuova cucina italiana volta a smontare i piatti da una prospettiva “verticale” per ricomporli, seguendo il filo della memoria, in forma orizzontale, non stratificata, per dare risalto alle materie prime del territorio senza smettere di ricordare la tradizione. Un bellissimo gioco se ben fatto, capace di bellissime sorprese, rispettoso del passato, alleato del palato e della salute. Basta che sia condotto da chef vivaci e competenti che, a quanto pare e sempre per Fortuna, non mancano.

Una Regione con una Cucina Nazionale

Riparato dalla premessa sul rischio difficilmente evitabile di apparire retorico, posso lanciarmi nell’impegnativa affermazione che ogni piatto della cucina siciliana è un pezzo di storia.
Durante i secoli l’isola è stata conquistata da Greci, Fenici, Romani, Bizantini, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Austro-Borbonici, Piemontesi. E non finisce qui. Perché alle dominazioni politiche si sono affiancate altre influenze meno aggressive e più squisitamente culturali. Importante è stata quella ebraica, specialmente per quanto riguarda l’elaborazione delle verdure e la preparazione delle frattaglie. Poi c’è stata – e c’è tuttora – l’influenza tunisina dovuta agli stretti rapporti tra dirimpettai nel Canale di Sicilia e che trova la sua massima espressione nel cus cus preparato da ben prima che diventasse di moda nel triangolo compreso tra Pantelleria, San Vito Lo Capo e Trapani. E sono tante le somiglianze con la cucina genovese: il matarocco marsalese è cugino del pesto ligure, la farinata è imparentata con le panelle, le verdure ripiene sono fatte con ricette simili e il pesce azzurro è trattato allo stesso modo e con la stessa devozione (acciughe ripiene, acciughe fritte al pomodoro, polpette di acciugheecc). Questo strano gemellaggio è dovuto senz’altro alle affinità climatiche, ma soprattutto agli intensi scambi commerciali tra i porti isolani e quello di Genova.

Come si sa, la Sicilia fu il granaio d’Italia e il primo grande laboratorio della pasta che proprio qui veniva sperimentata in nuove ricette e forme. Contemporaneamente a Genova sorgevano i primi grandi pastifici (siamo tra il 1200 e il 1300) che dalla Sicilia importavano grano e maestranze specializzate. In questa condizione di scambio anche i saperi gastronomici entrarono virtuosamente in un circuito arricchente per le due terre. Infine non vanno trascurati gli apporti della straordinariacucina di Napoli che rimase unita a Palermo per secoli nel Regno delle Due Sicilie.

I siciliani si sono comportati come vere proprie carte assorbenti verso i popoli con i quali sono venuti a contatto. Un po’ per meglio sopravvivere, un po’ per l’atavica ospitalità greca, e un po’ per naturale esterofilia e vocazione all’emulazione. Basta vedere come i frutti di martorana riescono a imitare la Natura.
Hanno preso di tutto da tutti: cromosomi, vocaboli, stili di vita, e naturalmente cibi e pietanze, elaborando e arricchendo a ogni passaggio di dominazioni i piatti di una cucina che oggi si presenta ricca, fantasiosa e raffinata come poche altre.
E’ proprio a questo straordinario talento per l’assimilazione del diverso che si deve una cucina così unitaria in un’isola tanto grande. Le varianti dei piatti ovviamente sono numerose, così come le specialità locali, ma stanno alla cucina isolana come i dialetti a una lingua nazionale: a tavola i corregionali si capiscono sempre, non c’è nessun principio base e nessun piatto “importante” nel quale, in fondo, un siciliano non si riconosca. Da qualsiasi parte provengano siciliano e piatto.

Anche questa è una circostanza meno frequente di quanto si possa pensare riferendosi a un territorio tanto vasto. In Lombardia, per esempio, non accadrà mai che un mantovano avvezzo alle tipicità della Bassa Padana e ai piatti della cucina gonzaghesca potrà sentire come propria la cucina d’alta montagna della Valtellina. Le Marche, poi, riflettono nei piatti la pluralità del loro nome. Anzi, sono una vera e propria confederazione gastronomica capace di passare dalla cucina settentrionale del burro a quella meridionale del peperoncino: a nord sono influenzate dalla Romagna, a sud dall’Abruzzo a ovest da Umbria,Toscana e Lazio e a est dal mare, mentre nel centro (che corrisponde al territorio di Macerata) si trova la più autentica cucina marchigiana. Insomma, una stimolante Torre di Babele gastronomica capace di mutare a ogni dozzina di chilometri.

In Sicilia, invece, il profilo è unitario. Pasta, olio d’oliva, verdure e pesce azzurro sono i quattro punti cardinali validi ovunque. Cambia qualche ingrediente, qualche nome, ma i piatti restano quelli. La “Pasta con la Norma” trionfa a Catania, ma è amata in ogni contrada della regione anche se con altri nomi (pasta ch’i milinciani), le arancine della Sicilia occidentale diventano arancini, al maschile, nell’orientale e cambiano dalla forma rotonda a quella appuntita a seconda di dove si spostano, ma sono fatte ovunque e con la medesima ricetta. Allo stesso modo, i dolci si ripropongono con i medesimi ingredienti-base che sono ricotta, mandorle, miele, pinoli, canditi, zuccate, cioccolato e fichi secchi, oltre che con la stessa vistosa, orgiastica varietà di forme e colori.

I siciliani sono isolani veri, con tutti i pregi e difetti di chi è abituato a sentirsi sempre un po’ più separato, diverso e lontano. Sulla carta geografica lo stretto di Messina è largo solo tre chilometri, ma nella testa e nel sentire dei siciliani la distanza dal continente è enorme. Perciò quelli dell’est e dell’ovest, del nord e del sud, del centro e della costa hanno finito con il riconoscersi gli uni negli altri, fondendosi in una cultura, anche gastronomica, comune. In più, sono sempre stati conquistati “in blocco” dai dominatori con i quali hanno sempre interagito intimamente secondo un’attitudine condivisa. Ciò ha determinato un’unitarietà gastronomica che assieme ad altre caratteristiche, come l’abbondanza di piatti, la loro rilevanza storica, l’unicità e la forte personalità che li rende ovunque riconoscibili, impone l’idea di una vera “Cucina Nazionale”.

La Grande Tavolata

Tralasciando le mense preistoriche di Siculi e Sicani, le radici più antiche della Cucina Siciliana sono quelle greche. Greco è l’amore incondizionato per la ricotta e fu proprio l’affetto arcaico per questo latticino a ispirare ai grandi maestri di pasticceria arabi i prototipi degli attuali, celeberrimi dolci a base di ricotta.
Le mani profane dei mori passarono poi il testimone a quelle cristiane dei Normanni e queste a quelle consacrate delle suore dei monasteri di clausura, veri centri di sperimentazione dell’arte pasticcera. I risultati finali sono la cassata, i cannoli e una quantità di piccole preparazioni locali (cassateddi, sfingi frarici, cartocci, iris) nelle quali la ricotta è variamente elaborata con cioccolato, cannella, canditi, cacao amaro, liquori, quindi racchiusa dentro a vari tipi di pasta e infine fritta oppure infornata.

Greca è anche l’origine dei dolci di mandorle e miele, così come la passione per le olive che in Sicilia non si accontentano del modesto ruolo di stuzzichino, ma diventano ingredienti fondamentali di piatti di carne (coniglio alla stemperata) di pesce (baccalà fritto con le olive nere, stoccafisso alla ghiotta) oppure conquistano lo status di vero e proprio piatto come nell’insalata di olive verdi con sedano, aglio, prezzemolo, olio e origano (alivi cunzati) o le olive nere fritte con origano, aceto e aglio. Sempre dalla Magna Grecia proviene l’uso dell’origano, diffusissimo nei piatti di tutta la regione e che vi consiglio di gustare nella “rianata” (origanata) trapanese, una pizza con pomodoro, pecorino, aglio, prezzemolo e tanto, tanto origano.

Agli arabi si deve l’importazione di nuove importantissime colture: learance, il riso, la canna da zucchero, lo zafferano e l’uso del sesamo che ancora oggi guarnisce il pane ed è la base dolci come la cubbaita, un torrone di sesamo e miele. Arabo anche il sorbetto di limone, oggi chiamato granita, e quello delizioso al gelsomino (scorzonera) per i quali furono successivamente costruite in tutta l’isola (e non solo sull’Etna, come viene solitamente riferito) le neviere, dei magazzini sotterranei idonei alla conservazione della neve fino alla stagione calda. E’ arabo anche il marzapane, la pasta di mandorle che in tempi successivi le monache del convento della Martorana a Palermo elaborarono artisticamente dandogli forma di frutta e ortaggi. Per questo in Sicilia la frutta di marzapane si chiama “Martorana“.

Alle monache si devono anche le minni di virgini (biscotti ripieni di zuccata e cioccolato a forma di seni) e gli agnelli pasquali e marzapane ripieni di pasta di pistacchio (golosissima specialità di Favara). Proprio in questi ulitmi anni il mondo dei gourmet italiani si è accorto della bontà di questo agnello che persino gli animalisti possono mangiare senza alcun scrupolo. Per loro e tutti gli estimatori, si celebra una sagra ogni anno a Favara nel mese di Aprile.

E poi va ricordata una quantità veramente cospicua di specialità tra le quali ricordo le cucchitelle (biscotti ripieni di zuccata), il cus cus dolce ai pistacchi e le ova murine (crépes scure alla mandorla e caffè ripiene di crema biancomangiare).
Grazie all’influenza spagnola, la Sicilia entrò presto in contatto con le novità arrivate dalle Indie Occidentali assimilandole velocemente: peperoni, zucche, pomodori, tacchini e quel cacao che ancora a Modica viene lavorato a bassa temperatura, evitando il concaggio, con il risultato di un cioccolato molto simile a quello che consumavano gli Aztechi. Tipiche di tutta la Contea di Modica sono anche le ‘mpanatigghie, ravioli dolci al forno ripieni di cacao amaro e carne di vitello discendenti delle empanadas. Stessa origine hanno le scaccie e le scacciate catanesi, calzoni al forno variamente ripieni di ortaggi, formaggi, uova.

La caponata è catalana, mentre derivano dalla tortilla le numerosissime frittate preparate di volta in volta con le fave, i piselli, i carciofi, la ricotta di pecora fresca, le patate, i finocchietti selvatici, l’asparagina selvatica e altre verdure di campo. Raramente se ne trovano di migliori nel resto del paese, quindi conviene pensarci bene prima di ritenerle una preparazione banale e declinare l’invito ad assaggiarle. Fra i dolci, l’importazione più importante è quella del Pan di Spagna, quasi mandato dalla provvidenza a fare da supporto alla cassata.

Specialmente su queste basi spagnole, oltre che su quelle francesi del periodo Normanno e Angioino, la cucina baronale del sette-ottocento, infine, ha costruito i suoi sontuosi piatti elaborati fino al limite del barocchismo dai celebri monsù(monsieur), i cuochi di origine francese o presunta tale che le famiglie nobili si contendevano persino a colpi di duello. Vere e proprie superstar della gastronomia, i monsù non disdegnavano di istruire, spesso d’intrallazzo e a pagamento, i più modesti “cuochi di paglietta” a servizio presso le famiglie borghesi. Il risultato di questa collaborazione interclassista è stata una cucina raffinata a tutti i livelli sociali, senza quella distinzione tra cucina nobile e cucina borghese che contraddistingue la gastronomia italiana.

La cucina popolare

Grazie all’arte dei monsù, anche la cucina popolare ha avuto modo di evolversi in preparazioni raffinatissime a dispetto della povertà degli ingredienti. Storico e sociologico il motivo di questa omologazione gastronomica tra classi: i palazzi dei centri storici di città e paesi prevedevano una stretta fusione tra nobiltà e popolo. I signori stavano al primo piano, detto “Piano Nobile”, mentre al pianterreno e in soffitta alloggiava stabilmente la servitù che, oltre a servire i padroni di casa, svolgeva nei locali della corte interna attività artigianali e di piccolo commercio.

Una separazione fittizia, con tutti che entravano e uscivano dallo stesso portone, attraversavano gli stessi cortili, salivano e scendevano le stesse scale. La popolana si spostava con un brevissimo tragitto dalle sue povere stanze al piano nobile dove manipolava le costose prelibatezze della cucina patrizia e una volta tornata a casa non mancava di copiarla sostituendo gli ingredienti troppo cari per le sue finanze con succedanei a buon mercato.
Forse così sono nate le melanzane a “quaglia”, un umido nel quale le costose quaglie venivano sostituite con le modeste melanzane e le melanzane impanate, in tutto identiche alle cotolette tranne che per l’assenza totale di carne. E così sono probabilmente nate le sarde a beccafico, che con la loro forma arrotolata e la piccola coda svettante ricordano i preziosi uccelletti dalle carni pregiatissime che si nutrono di fichi.

Naturalmente, la sguattera del monsù non tralasciava di proporre ai padroni la “sua cucina”, quella povera, e questi l’accettavano di buon grado anche perché era puntualmente richiesta dal padrone di casa quando mangiava in privato e non era costretto a esibire le esotiche raffinatezze francesi tanto di moda ma fatalmente lontane dagli amati, forti sapori della terra natale. I monsù non resistevano alla tentazione di impreziosire le ricette popolane con i preziosi pistacchi, l’ancor più prezioso zafferano o l’uvetta sultanina, e il risultato finale veniva a sua volta riassorbito dalla popolana che aveva inizialmente fornito le ricette.
Le sguattere, quindi, non avevano soggezione né sacro terrore per il pasto aristocratico ed è anche grazie a loro che oggi la cucina baronale coincide con quella di tutti i giorni.

A proposito, va ricordato che molti piatti tradizionali si presentano con una serie di varianti più o meno ricche proprio per via di questo intenso va-e-vieni interclassista di ricette. E’ così per la caponata, che partendo da una base povera di melanzane, pomodoro, sedano, cipolla, capperi e olive, può arricchirsi di asparagi, polipetti, pesce spada, bottarga, gamberi e perfino di preziose aragoste. Lo stesso avviene per il falsomagro, un enorme involtino di carne di vitellone rosolato e poi cotto in umido nel vino bianco o nel sugo di pomodoro. Come anticipa il suo nome, si tratta di una preparazione “a sorpresa”, perché dentro alla fetta di carne magra c’è una vera e propria cornucopia di delizie: salsiccia, piselli, carne tritata, prosciutto, provolone, uova sode, cipollotti. Tutti gli ingredienti possono essere sostituiti da equivalenti più poveri: il prosciutto con la mortadella, la provola col primo sale, la carne con frittatine di verdura secondo il consueto uso di succedanei poveri nel quale le massaie siciliane sono imbattibili.

La cucina dell’interno

All’interno dell’isola si custodiscono le tradizioni gastronomiche più arcaiche e squisitamente elleniche. Verrebbe da pensare che per trovare le tracce gastronomiche dell’antica Grecia si debba andare ad Agrigento o a Siracusa. Non è così. Queste due città furono, è vero, due metropoli e massime potenze della Magna Grecia, ma la loro posizione sulla costa nei secoli successivi favorì l’esposizione alle sovrapposizioni arabe, normanne, angioine e spagnole con l’assorbimento di raffinatezze estranee al rigore agro-pastorale della cucina ellenica che mette in primo piano i prodotti della terra e della pastorizia. Sempre elaborandoli – perché quello è un vezzo siciliano insopprimibile – ma in modo più contenuto.

Se mangiando lungo la costa si ha la sensazione di assaggiare sempre un pezzo diverso di Storia, nel cuore della Sicilia si può sentire il gusto della preistoria.
I sapori sono quelli forti del finocchio selvatico, degli asparagi selvatici, degli sparaci di tronu (getti di cus cus), dei mazzareddi (o amarelli, getti di una pianta della famiglia della senape) e di un’infinità di altre verdure spontanee ed erbe aromatiche. Verrà offerta la frascatula, una polenta di farina di fave abbrustolite condita con il finocchietto, e la salsiccia aromatizzata con i semi di finocchio selvatico e cotta tra due tegole ricoperte di braci.

Gli agnelli e i capretti sono ancora arrostiti “alla greca” in grandi pezzi steccati con aglio e erbe aromatiche, e anche i sontuosi falsomagri della cucina angioina vengono semplificati in una grossa polpetta ripiena di uovo sodo, prezzemolo e formaggio. Va sempre però tenuto conto che la Sicilia è sempre e ovunque terra di contraddizioni. Perciò proprio a Enna, che è l’epicentro della Sicilia e quindi la roccaforte della semplicità, si trova la più complessa ricetta di trippa in circolazione in Italia. E’ latrippa all’olivetana, un timballo con strati di trippa, melanzane fritte, ragù di carne, caciocavallo, primosale, uova sode, garofano e cannella.

In conclusione

La conclusione di questo discorso sulla cucina siciliana coincide con la sua premessa. La Sicilia è una terra da sempre tormentata, problematica, difficile, malamente sfruttata dalla cattiva politica locale e nazionale, dagli stranieri, dagli italiani e dagli stessi siciliani. Le responsabilità remote sono denunciate dalla storia, quelle attuali sono sotto gli occhi di tutti, raccontate dalla cronaca.
Un occhio attento, però, può facilmente vedere quanto “il buono” disponibile sia ancora un’enormità! Con in più la fortuna di essere attuale, desiderato, di moda. Quasi una trentina di anni fa si parlò diRinascimento Siciliano. Non era un semplice slogan, perché quella parola, Rinascimento, per i siciliani ha un significato grande e doloroso dal momento che l’hanno saltato a piè pari.

Quando nel Nord e nel Centro della Penisola nascevano i liberi comuni e le signorie, in Sicilia Federico II restaurava il feudalesimo, fissandola al Medio Evo e consegnandola a una serie di problemi causati dalla mancata evoluzione sociopolitica nei tempi naturali. Con il tempo e la stratificazione delle dominazioni i problemi si sono cristallizzati in difetti, talmente radicati da essere considerati da molti costitutivi dell’indole isolana e perciò quasi inestirpabili. Sono rassegnazione, servilismo, povertà, pratica sistematica della raccomandazione, emigrazione, politicantesimo e un esasperato individualismo corredato dall’assenza di rispetto della “cosa comune” (siciliani socievoli ma non sociali).

Negli anni ottanta sembrava che tutto stesse cambiando velocemente in meglio. Non fu così. Perché tranne che non si parli di rivoluzione, i grossi cambiamenti sono processi lenti e farciti di regressi. Ora sembra nuovamente di vivere un momento buono, propulsivo. Rimangono molti dei problemi di sempre, ma i siciliani ricominciano a sentirsi padroni a casa loro e i più illuminati si sentono di nuovo chiamati a fare la loro parte, secondo il mestiere, la capacità e le possibilità di ognuno.
C’è bisogno di tutti: di politici onesti, di imprenditori coraggiosi, di donne e uomini di cultura, di artisti e di chiunque possa riempire le pagine dei giornali con buone notizie siciliane.

Fra questi ci sono gli operatori dell’enogastronomia, depositari e testimoni di un patrimonio cospicuo che tanto di buono può portare all’immagine e all’economia di questa terra. Sono le tante professionalità dedite a questo settore: produttori, commercianti, giornalisti, operatori turistici e del marketing, pubblicitari, eccetera. Fra tutti, quelli più immediatamente spendibili sono gli chef. Sono loro a fare più facilmente notizia e soprattutto sono i veri operatori culturali del settore, anche se spesso non ne sono consapevoli. Capaci di scoprire e creare ma non sono altrettanto abili nell’inserire riflessioni, operazioni culturali e scoperte nei circuiti ufficiali della conoscenza. Ma per questo ci sono i gastronomi che (si spera) non si limitano a muovere le ganasce sul lavoro di chi cucina, ma si impegnano anche a capirlo e teorizzarlo per poi consegnarlo alla cultura.

Perciò è giusto che queste due professionalità collaborino strettamente, senza sciocchi primati del pensiero (del gastronomo) sull’azione (del cuoco) e finalmente sgonfiando il ridicolo clima di esame che inquina sempre i loro incontri.
Va bene il giudizio, ci vuole anche quello, ma ciò che veramente conta è lo scambio di saperi, l’alleanza, la sinergia di competenze altrimenti destinate a rimanere incomplete ciascuna nel proprio campo. I gastronomi giudichino con minore altezzosità e gli chef si rilassino, siano più consapevoli del loro genio, se l’hanno avuto in dono dalla provvidenza, e temano di meno di giocarsi la carriera a ogni nuovo piatto di pasta.

Facendo questo discorso mi vengono in mente facce, nomi e piatti memorabili di bravissimi chef siciliani. Tra questi, mi sembra di avere individuato i magnifici sette della nuova cucina siciliana. Sono Patrizia di Benedetto, Vincenzo Candiano, Accursio Craparo, Pino Cuttaia, Massimo Mantarro, Natale Briguglio e Alberto Rizzo. A loro e a tutti quelli con uguali meriti che non ho nominato perché non ne ho direttamente conosciuto il lavoro, vorrei augurare una passione sempre più grande e, questa sì, tanta consapevolezza della loro responsabilità.
Perché non cucinano e basta. Costruiscono la Nuova Cucina Siciliana che è parte della Nuova Speranza Siciliana.

Martino Ragusa

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