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Parmigiano Fast O Slow?

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Patrizio Roversi dice la sua sul MacItaly.

di Patrizio Roversi.

Immagino che non vi sia sfuggita una polemica che è scoppiata nei giorni scorsi, riguardo ad un tema che – secondo me – è assai coinvolgente ed importante per gente come noi, attenti in qualche modo al cibo e… ai suoi derivati (intesi come temi ed argomenti). Un tema che la Compagnia del Cibo Sincero non può ignorare…

L’antefatto

Cosa succede “quando il gusto inconfondibile di Mac Donald’s incontra gli ingredienti tipici della nostra tradizione”? Succede che nasce MacItaly, il panino fatto con ingredienti italiani, tipo la carne, e anche prodotti tipici (come il parmigiano reggiano o lo speck). Ilministro Zaia ha tenuto a battesimo l’operazione. L’editorialista del Guardianl’ha definita invece “un mostruoso atto di tradimento nazionale”.
Carlo Petrini, il padre di Slow Food, è meno apocalittico, ma teme che “il MacItaly sia soltanto una nuova via per sfruttare i contadini, pagandoli poco, imponendo un’ulteriore standardizzazione collettiva che non può far altro che impoverire uomini, gusto e tradizione.” E di conseguenza vuole sapere dalla MacDonald’s quanto paga la materia prima al chilo per i singoli prodotti. Il ministro Zaia invece si dichiara entusiasta del fatto che, grazie al MacItaly, si consumano mille tonnellate di nostri prodotti al mese, per un valore di 3.5 miliardi di euro.
Il motivo del contendere, alla fine, è racchiuso nella domanda “è cosa buone e giusta globalizzare il gusto italiano?”. Secondo Zaia sì, secondo Petrini non esiste una identità gustativa italiana, che MacDonald dà per scontata citandola espressamente nella pubblicità del MacItaly: esiste viceversa in Italia una grandissima variabilità di identità gustative regionali, addirittura provinciali. E globalizzare significa per forza omologare e standardizzare, mentre un’identità vive sulle differenze. Secondo Petrini il famoso “gusto inconfondibile” di Mac Donald è sempre uguale a se stesso, anche se declinato diversamente nei vari Paesi (McGreek, MacLobster, MacHuevo ecc).
La polemica, ad oggi, registra una replica di Zaia che accusa Petrini di adottare un atteggiamento prevenuto ed ideologico. E cita la situazione disastrosa in cui versa l’economia dell’agricoltura italiana. Rivendica di aver lavorato a favore dell’identità agricola italiana, contro lo strapotere dell’Europa. Dice che servono le multinazionali per uscire dalla crisi e lancia ilparadosso della “multinazionale identitaria”, che cioè si declina diversamente in base al territorio.
Interviene anche Roberto Masi, l’Amministratore Delegato di MacDonald’s Italia, che ribadisce che tutta la carne degli hambugher è italiana, che usano mele italiane, Parmigiano DOP, Speck IGP, Pancetta della Val Venosta. In questo modo il Consorzio del Parmigiano ha smerciato 270 tonnellate di formaggio. Rivendica l’assoluta tracciabilità dei prodotti usati. Mac Donald’s ha 600.000 clienti al giorno in Italia, e non si tratta – sempre secondo Masi – di omologazione del gusto, bensì di “diffusione degli ingredienti e delle tradizioni nazionali”. Ma non ha risposto specificatamente alla domanda di Petrini: quanto paga i contadini e i produttori?

Cosa ne pensate?

In attesa che diciate la vostra, in attesa che Martino – che di prodotti tipici se ne intende perché ha girato l’Italia sulle loro tracce – si esprima, io posso dire intanto quel che penso di pensare io, da semplice “turista per cibo”.
Ricordo la prima volta che ho sentito parlare Carlo Petrini: è stata come una sorta di rivelazione, finalmente un discorso che, partendo da una necessità quotidiana come il cibo, spaziava nella politica, nell’economia, nell’ecologia e nella cultura, offrendo finalmente una chiave di interpretazione generale dello stato delle cose. Dopodichè Slow Food potrà aver i suoi momenti discutibili, ma il suo discorso culturale resta un punto fermo. Come dire che, quando parla Petrini, io ho un riflesso condizionato positivo, una sorta di effetto-ipse-dixit. Il Ministro Zaia lo definirebbe probabilmente un pregiudizio positivo puramente ideologico. Stavolta però sono perplesso, e per farmi una ragione del motivo del contendere devo spostare il tema e il luogo. Infatti un cibo non è soltanto fatto di ingredienti: dipende come sono cucinati e dove sono consumati. Sul come è lecito temere che, nella produzione industriale tipica di Mac Donald’s, gli ingredienti siano in qualche modo stressati da una preparazione di stampo prettamente industriale.
Poi c’è il dove, che implica anche appunto il come vengono consumati. Per definizione un pasto “fast” (a cui purtroppo siamo quasi tutti obbligati dai ritmi di vita) non fa bene alla salute, né favorisce una situazione in cui si possa godere di quel che si mangia. I Fast Food sono poi, per eccellenza, quelli che si definiscono non-luoghi, cioè posti tutti uguali, assolutamente impersonali, dove la cifra ricorrente è la mancanza di relazioni: chi ti serve il pasto lo fa meccanicamente, poi ognuno consuma il suo vassoietto per conto suo, a volte addirittura in piedi.
Viceversa il cibo è prima di tutto relazione. Un altro aspetto fondamentale è, secondo me, anche il con-cosa ti vengono serviti i cibi: giorni fa, in una stazione ferroviaria, in un MacDonald’s ho preso delle crochette di pollo fritto e un’insalata, ma ho dovuto mangiare tutto scondito, perché le salse che mi erano state fornite, oltre che confezionate in monodose della serie se-mi-tocchi-ti-ungo, rappresentavano il peggio di quella tradizione gastronomica anglosassone dalla quale sarebbe opportuno guardarsi: ketchup, condimenti non meglio identificati, senape ecc.
Dopodichè l’eco-incompatibilità dell’insieme è del tutto evidente: un sacco di imballi, plastica ecc. Se penso a quel che mi diceva qualche settimana fa il Presidente di un Caseificio Reggiano, che si lamentava addirittura del fatto che ormai il suo Parmigiano viene commercializzato grattugiato, o in sottilette o fettine o “caramelle”, mi vien facilmente da pensare che, così come nel campo della comunicazione “il medium è il messaggio”, nel campo della ristorazione il luogo e il gusto, il modo e il sapore siano strettamente legati.
Dopodichè però il Presidente del Caseificio mi diceva altre cose: mi raccontava che la crisi sta letteralmente stritolando un intero mondo, il mondo degli allevatori e dei casari. I più fortunati… possono smettere e chiudere bottega. I meno fortunati, che hanno forti interessi bancari da pagare, devono per forza continuare a lavorare in perdita. Ed ecco allora che le motivazioni del Ministro Zaia mi sembrano decisive.
Ma diventa importante anche la domanda (per ora inevasa) di Petrini: quanto ci guadagnano i produttori e i contadini? Come siamo messi nel mondo essenziale (non a caso è il settore “primario”) dell’agricoltura? Che sta succedendo? Il famoso Presidente mi ha risposto che questa crisi non è passeggera, è l’effetto appunto della globalizzazione, e che andando avanti sarà sempre peggio, finiranno le quote latte e quindi tutte le protezioni economiche, e l’apertura ad altri mercati (del sud e dell’est) darà il colpo di grazia all’agricoltura come la conosciamo qui ora. “Devono campare anche loro, bisognerà pure aprire il mercato” mi ha detto il saggio Presidente, scuotendo la testa.
E allora forse l’unica risorsa che ci resterà sarà la qualità, l’identità, l’unicità dei nostri prodotti. Che da una parte devono diventare “di massa”, ma certo corrono qualche rischio, macinati assieme agli hamburger MacDonald’s.
E’ come vedere il mio attore preferito recitare in un brutto film. Certo, lo fa per campare, e lo capisco benissimo. Dopodichè magari la sua interpretazione renderà il film più accettabile. Ma non correrà il rischio di sputtanarsi un po’?

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