Nascono orti, fiori e piante tra i palazzi di edilizia popolare della periferia di Milano e, sopra i palazzi di via Russoli, succede qualcosa di inaspettato: i tetti si trasformano in giardini pensili, gli orti diventano spazi di comunità, e le persone riscoprono il piacere di coltivare, condividere, abitare. A guidare questo cambiamento è il progetto “Coltivare la città”, nato da un’intuizione dell’architetta Tiziana Monterisi, fondatrice di Ricehouse – impresa benefit che utilizza scarti della lavorazione del riso per costruire edifici salubri, efficienti e sostenibili. Non si tratta solo di un progetto di rigenerazione urbana, ma di un gesto sociale e poetico che trasforma l’abitare, restituisce dignità ai luoghi e mette al centro le persone. Ce lo racconta proprio Tiziana Monterisi.
“Coltivare la città”: arte, cibo e natura per abitare le periferie

“L’idea parte nel 2014” – racconta Monterisi – “con un giardino pensile di 750 metri quadri in via Tortona, realizzato prima di Expo. Era un’installazione per raccontare cosa significa rendere verdi spazi solitamente cementificati. Lì è cominciato tutto, grazie all’incontro con due signore in pensione che cercavano un orto e si sono ritrovate in un piccolo paradiso al quarto piano.” Quelle due signore, Lucia e Tina, iniziano a coltivare, producono molto più del loro fabbisogno e cominciano a condividere ortaggi con altri inquilini delle case popolari di via Russoli, dove abitano. Così nasce l’idea di un orto condiviso, non diviso in lotti privati ma pensato come bene comune, aperto alla partecipazione volontaria di chiunque voglia prendersi cura di uno spazio, di sé e degli altri.
L’intero progetto si ispira al simbolo del Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto, che propone un equilibrio tra natura e artificio: l’arte come mezzo per rigenerare il tessuto urbano e sociale. L’incontro con Pistoletto e la sua visione ha contribuito a dare un’impronta simbolica e culturale al percorso, trasformando l’orto urbano in un’opera relazionale.
Un tetto che diventa giardino: orti condivisi sopra le case popolari
Nel tempo, l’esperienza si allarga. I 700 metri quadri iniziali diventano, dopo il Covid, oltre 3.500 metri quadri di verde coltivabile, sopra quattro torri residenziali dove vivono circa 400 persone; in via Russoli, appunto. Grazie al Superbonus, è stata migliorata l’efficienza energetica degli edifici, ma sono anche stati riqualificati i tetti, trasformandoli in veri e propri orti-giardino. “Abbiamo voluto far capire che sopra le loro teste potevano avere piante, orti, api, spazi condivisi. Non un orto dove ognuno ha il suo pezzetto, ma un luogo dove tutti possono partecipare alla coltivazione, prendere frutta e verdura o semplicemente condividere del tempo”, spiega Monterisi.
Oggi, più di venti pensionati coltivano fisicamente l’orto. A partecipare non sono solo donne: anche molti uomini del quartiere hanno cominciato a farsi coinvolgere, dimostrando come la cura collettiva di uno spazio possa generare appartenenza, fiducia e relazioni.
Architettura come “terza pelle”: la visione di Ricehouse
Il progetto è anche un esperimento di architettura naturale (come anche l’esempio del land CR.AF.T.ED in Toscana) oltre che di urban farming. Attraverso Ricehouse, Monterisi e il team hanno portato nel cantiere materiali innovativi, completamente naturali, derivati da sottoprodotti della filiera del riso, come la paglia, integrati in un intervento di riqualificazione energetica e rigenerazione sociale. “Alle Torri Risorsa abbiamo voluto dare una ‘terza pelle’ completamente naturale, bella, capace di migliorare la qualità della vita. Poter generare spazi di relazione migliora l’esistenza. Oggi queste persone si incontrano per fare danza, uncinetto, teatro, orto… L’edificio è cambiato, ma sono cambiate anche le persone”, sottolinea l’architetto. La progettazione ha seguito un approccio BIM (ovvero una tecnica innovativa che prevede la rappresentazione digitale delle caratteristiche fisiche e funzionali di un oggetto o edificio) e ha previsto l’uso di tecnologie off-site, con la prefabbricazione delle superfici verticali. Ma, più di tutto, è la filosofia dell’abitare a essere nuova: l’edificio diventa un organismo vivente, in grado di rigenerare chi lo abita.
Una piazza in quota: l’orto come spazio di relazione
Nelle Torri Risorsa, e in generale nella visione di Coltivare la città, gli orti sui tetti non servono solo a produrre cibo: sono pensati come piazze aeree, dove le persone si incontrano, chiacchierano, organizzano eventi. A dare supporto alla gestione del verde è anche la cooperativa Opera in Fiore, che coinvolge persone fragili, tra cui ex detenuti, in percorsi di reinserimento attraverso la cura delle piante.
“Coltivare la città è uno strumento potente di rigenerazione fisica ma anche sociale. Le persone che vivono qui, spesso con storie complesse, trovano negli orti uno spazio di relazione e riscatto. L’architettura, per me, non è mai un fine: è un mezzo per far vivere meglio le persone”, aggiunge l’intervistata, parlandoci delle attività realizzate. Orticoltura, laboratori, incontri, momenti di festa. Il cibo è il collante e l’espressione concreta del prendersi cura: chi coltiva non lo fa per sé, ma per la comunità, donando zucchine, pomodori, sacchettini di lavanda.
Partecipazione e trasformazione: quando l’abitare diventa sociale e politico
Uno degli elementi distintivi del progetto è il coinvolgimento diretto degli abitanti, protagonisti attivi del cambiamento e di tutte le iniziative che riguardano la Food Policy, come evidenziato anche dal Comune di Milano. “La prima volta che abbiamo portato una signora sul tetto, guardando il panorama ha detto: ‘Vivo qui da 40 anni e non sono mai andata in Duomo’. È partita così l’idea di una gita al Museo del Novecento. Lì ha riconosciuto un’opera di Pistoletto: ‘Ma questo è il signore che abbiamo conosciuto!’. È stato straordinario: l’arte ha trasformato una realtà quotidiana in qualcosa di potente”, racconta con emozione Monterisi.
L’esperienza di via Russoli è diventata un laboratorio urbano a cielo aperto, visitato da architetti, ricercatori e amministratori da tutta Europa. Oggi, Coltivare la città è un punto di riferimento: attorno al progetto orbitano più di 30 associazioni, l’università IULM, cooperative, gruppi informali. E l’esperienza suscita interesse anche fuori dall’Italia.
“Speriamo che le amministrazioni colgano l’importanza di lavorare in modo integrato: progetto tecnico, sociale e partecipativo insieme. È un cambio di paradigma, lontano dalla logica dello sviluppo immobiliare. Rimettiamo al centro le persone: coltiviamo gli spazi, ma anche le vite”, riflette Monterisi.
Non è un modello da replicare in serie, ma piuttosto una visione adattabile, fondata sull’ascolto e sulla relazione che permette all’agricoltura urbana di essere al servizio dell’inclusione e della qualità dell’abitare, soprattutto nei contesti più fragili. “Sembrano banalità” – conclude l’architetta – “ma sono segni di cura, condivisione, relazione. È quel gesto minimo del prendersi cura che per noi è fondamentale.” Un gesto minimo che diventa radice di un nuovo modo di vivere la città, dove l’orto sul tetto non è l’eccezione, ma il segno che un altro modo di abitare è possibile.
Immagine in evidenza di: SuperOrtoPiù