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Mai Sentito Parlare Della Mecca Cola?

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Primo piano di una lattina

di Silvia Salomoni.

Che la sete si trasformi in un bisogno di Coca Cola è al contempo un simbolo e una minaccia. Basti pensare che in diverse regioni del mondo bibite costose e prive di sostanze nutritive soppiantano bevande tradizionali come il tè, il latte di cocco, i succhi di frutta e l’acqua; questo perché la logica consumistica antepone il valore distatus a quello nutrizionale. È altrettanto vero che i prodotti importati da fuori spesso vengono reinvestiti di un significato diverso e proprio, interiorizzati, per aprirsi al mondo senza pregiudicare il mantenimento dell’identità locale.

La Coca Cola si presta come esempio: in Russia a questa bevanda viene attribuita la capacità di spianare le rughe, ad Haiti viene utilizzata in cerimonie vudù per resuscitare i morti, in Messico gli anziani tzotzil si riuniscono in chiesa ogni terzo giovedì del mese per entrare in contatto con Dio grazie all’aiuto di Coca Cola e poch (una bevanda alcolica locale). Bottiglie di Coca Cola si trovano inoltre sugli altari dell’isola più meridionale dell’arcipelago giapponese delle Ryukyu, perché la loro forma ricorda il corpo di una donna gravida e pare propizi alla fertilità. Come dire, la contaminazione culturale non è necessariamente inquinamento della tradizione, ma, tramite processi a volte insoliti di incorporazione e rielaborazione di input esterni, si può arrivare anche a un arricchimento, o aggiornamento della cultura stessa.

Ma se da un lato si possono raccontare tanti casi anche curiosi di apertura creativa alla contaminazione straniera con atteggiamenti tutt’altro che passivi, dall’altro c’è chi ne mette in luce il pericolo e la valenza colonizzatrice, dando vita a reazioni che potremmo definire fondamentalistiche. Per restare in tema, è lampante il caso dell’imprenditore tunisino Tawfik Mathlouthi che nel 2002 ha lanciato sul mercato europeo un nuovo prodotto destinato a far breccia sui consumatori musulmani: la Mecca Cola. Della cugina yankee ha il colore, le bollicine, similitudini di confezione e di etichetta, ma si fa largo sul mercato a suon di uno slogan assai provocatorio: “Ne buvez plus idiot, buvez engagé!” (“non bevete più idiota, bevete impegnato!”). Caratteristica di questo prodotto è che non si trova nelle catene dalla grande distribuzione, ma solo nei piccoli negozi specializzati dei quartieri a forte immigrazione delle città europee. La Mecca Cola è solo il caso più recente ed eclatante di boicottaggio alla penetrazione della Coca Cola nei paesi arabi (l’antenata più celebre è la ZamZam, bibita creata in Iran nel 1954), spicca però per il favore che ha riscontrato in Francia (il primo grande impianto si trova a Poitier) e per l’ambizione del progetto che prevede enorme estensione del raggio di vendita, nuovi stabilimenti produttivi in Medio Oriente (a Dubai c’è la sede centrale) e il 20% dei profitti direttamente a disposizione di opere umanitarie, in particolare per la tutela dell’infanzia palestinese.

Una lotta all’ultima lattina che ha poco di commerciale, più che focalizzarsi sulla sfida improbabile a suon di profitti – Mecca Cola contro Coca Cola suona un po’ come uno scontro Davide e Golia – il malcelato intento prende la forma di una crociata contro l’americanismo che userebbe la Coca Cola come uno dei tanti tramiti per penetrare e sovvertire a sua immagine e somiglianza le altre culture.
Questo per sottolineare come la direzione della contaminazione culturale non sia come spesso si tende a credere con semplicismo a senso unico; certo, l’asse che va dal centro alla periferia è quello più forte e risaputo, ma l’interdipendenza e la resistenza delle realtà locali non vanno mai sottovalutate.

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