di Gianluigi Storto.
Ospitiamo tra le pagine del Giornale del Cibo l’approfondimento di Gianluigi Storto, chimico ed esperto di tè, nonché autore del libro “Il tè, verità e bugie, pregi e difetti” (Avverbi editore, Roma 2006). Questa settimana pubblichiamo la prima parte dedicata alla storia di questa pianta, nei prossimi aggiornamenti Gianluigi tratterà altri aspetti e curiosità.
La storia del tè
Ci sono molte leggende sull’origine del tè, la seconda bevanda bevuta al mondo dopo l’acqua. Di fatto la Camellia sinensis, la pianta con i cui germogli e prime foglioline si fa l’infuso, è originaria di una regione al confine fra l’attuale Myanmar (l’ex Birmania) e la Repubblica Popolare Cinese, dove ancora oggi vegetano millenari boschi di Camellie. Ci sono notizie circa la vendita di una particolare elaborazione delle foglie di Camelia sinensis da parte del popolo di etnia Shan agli abitanti dell’odierno Myanmar. Sembra che le foglie della pianta venissero stipate dentro canne di bamboo e fatte fermentare per farne una verdura da mangiare. D’altra parte ancora oggi, da quelle parti, viene prodotto un particolarissimo tè, il Npphet (o Letpet), ottenuto facendo bollire le foglie fatte precedentemente ammuffire dentro canne di bamboo conservate per mesi sotto terra. Si ottiene così una pietanza particolarissima, di odore assai aspro e acido, ma che non sa affatto di muffa, che viene stipata dentro pregiate scatolette laccate per farne omaggio, nei giorni di festa, alla famiglia della propria fidanzata. Ma in breve i cinesi impararono che l’infuso in acqua bollente dei germogli e delle foglioline più giovani della pianta era una bevanda dalle molte proprietà: la bollitura infatti disinfettava l’acqua rendendola potabile, (e anticamente come ancora oggi nei Paesi poveri della terra, la disponibilità di acqua potabile era una cosa molto seria), il sapore era molto gradevole, il contenuto di un alcaloide naturale, di cui ci occuperemo più avanti, la caffeina – che alcuni continuano a chiamare teina – stimolava il sistema nervoso allontanando il sonno e la stanchezza e acuiva l’attenzione. L’impero cinese era molto grande e il nome della pianta e dell’infuso, aveva varie declinazioni a seconda della regione specifica. Così, per esempio, nella provincia del Fujian si chiamava te. E siccome gli olandesi trafficavano con il porto di Xiamen –Amoy in olandese), questa pronuncia si estese in tutta Europa, aggiustandosi in thee in olandese e tedesco, in tè in italiano,
spagnolo, danese, norvegese, svedese e ungherese, tea in inglese, tee in Finlandia, teja in Lettonia. Invece nella provincia di Canton il tè veniva chiamato cha e siccome i portoghesi trafficavano con il porto di Macao, in quella provincia, ecco il motivo per cui ancora adesso in Portogallo il tè si chiama cha. Cha venne chiamato anche in Giappone, che importò l’uso del tè dalla Cina, e i portoghesi, che come abbiamo visto trafficavano con la provincia di Canton, diffusero questa dizione in Russia, dove il tè è chiamato chai addirittura in persiano, dove si chiama shai.
Nel periodo di massimo splendore della civiltà araba, in Sicilia furono compiuti una serie di esperimenti di agraria, nel tentativo di ricrearvi coltivazioni tipiche di Paesi orientali per diminuirei costi di queste merci che altrimenti dovevano essere importate. Così si diffusero in Sicilia gli agrumi, i carciofi, la canna da zucchero e molte piante medicinali. E siccome il tè era considerato un infuso dalle proprietà medicinali, gli arabi provarono a coltivare la Camellia sinensis anche in Sicilia, purtroppo con scarsi risultati.
Il tè in Cina e Giappone
Una leggenda narra che Bodhiharma, un monaco indiano che attorno al 500 d.C si recò in Cina, rimase per nove lunghi anni seduto in meditazione in una grotta nei pressi di Shaolin. Qui, per non cadere in preda al sonno che l’avrebbe distolto dalla meditazione annebbiandogli e confondendogli il pensiero (la mistica Zen insiste molto sulla necessità di mantenere il controllo mentale), si tagliò le palpebre e le gettò a terra. Nel punto in cui caddero, sarebbe cresciuta la prima pianticella di tè.
La leggenda è sicuramente basata sul potere nervino del tè, ovvero sull’effetto stimolante che esso manifesta sul sistema nervoso, eliminando rapidamente in chi l’assume il senso di stanchezza mentale e fisica e la sonnolenza. Ne parleremo in seguito ma vogliamo subito far notare come questa proprietà neurostimolante sia stata subito intuita – e sfruttata – dai cinesi.
Nell’800 dopo Cristo, mentre in Europa Carlo Magno veniva incoronato imperatore, in Cina un monaco buddista, tale Lu Yu, aveva già scritto un libro che riportava tutto quello che si sapeva sul tè e su come bisognava prepararlo: il Cha Ching, ovvero il libro completo del tè. La bevanda, infatti, era all’epoca già diffusissima in tutto il Celeste Impero, anche se non veniva bevuta come oggi. Infatti permaneva ancora l’idea che in fondo si trattava di una verdura e così molti mettevano nell’infuso molte altre sostanze vegetali. Lu Yu prescrisse che solo il sale poteva restare mentre escluse altri ingredienti, avviando il tè alla sua “formulazione” odierna. Anche il sale fu quindi eliminato ed ecco che rimase soltanto l’infuso di germogli e prime foglioline. Ma come vedremo, non sarebbe finita qui, in quanto sempre da quelle parti, qualche tempo dopo, sarebbe stato “inventato” il tè fermentato, o tè nero, di cui ci occuperemo in seguito.
Ma nella Cina antica il tè non era soltanto una bevanda più o meno buona e benefica alla salute. La sua fortuna era legata al fatto che le sue virtù psicostimolanti, dovute al contenuto di caffeina, ben si accompagnavano alla visione del mondo di quella grande civiltà. Il libro di Lu Yu sul tè, soprattutto nella parte in cui venivano prescritti e codificati i modi di preparazione, fu considerato dall’imperatore un esempio di virtù buddiste Zen –amore per l’armonia, purezza d’animo, tranquillità del continuo controllo vigile del mondo esterno- tanto che ne diffuse l’insegnamento in tutto l’Impero. In questo modo Lu Yu fu considerato un santo ancora in vita e la pratica del tè conobbe un successo enorme. La vigilanza psichica indotta dalla caffeina contenuta nella bevanda, infatti, permetteva un migliore controllo mentale degli accadimenti esterni ed interni, aiutando nella meditazione e nella preghiera e così il tè divenne un simbolo materiale di quella civiltà.
In Giappone il tè fu introdotto dal predicatore buddista Eisai quale elemento di una funzione religiosa. Il tè fu infatti inizialmente associato alla ritualità Zen – di cui, come dicevamo, era una sorta di “materia magica” in quanto in grado di promuovere quelle virtù di vigilanza psichica e attenzione mentale assai apprezzate da quella visione del mondo – e si diffuse così alla Corte Imperiale e da qui, per via dei molti monasteri sparsi nel territorio, a tutto l’antico Giappone.
Prima ancora di essere elevato ad elemento di un’arte cerimoniale, il tè era impiegato, nel Giappone antico, quale bevanda rituale nel corso di particolari tornei, cui partecipava la migliore nobiltà giapponese, che consistevano nel preparare le migliori miscele da offrire all’Imperatore. Al vincitore venivano elargiti premi dall’elevatissimo valore sociale ed anche economico, come preziosi abiti di seta, gioielli ed armature finemente cesellate.
Ovviamente non si può parlare del tè in Giappone senza accennare alle cerimonie tradizionali del tè. Fu il sacerdote Zen Sen-no-Rikkiu –o Rikyo- (1521-1591), che ripristinò l’antico significato religioso e mistico del tè, definendo le rigide regole della cerimonia, quali sono tuttora osservate.
Chi fosse interessato agli aspetti più particolari della cerimonia e soprattutto al valore mistico che il tè, specialmente se ha curiosità di trovarne i fondamenti nelle caratteristiche chimico fisiche della bevanda, troverà nel libro alcune risposte importanti.
Dall’Oriente all’Occidente
Molti viaggiatori arabi avevano parlato del tè e, come abbiamo visto, gli arabi provarono addirittura a coltivare il tè in Sicilia. Ma la prima memoria storica occidentale del tè è del 1559, quando esso viene citato nel libro Della navigatione et viaggi, dell’Ambasciatore della Repubblica di San Marco Giambattista Ramusio. Scriveva Ramusio a proposito delle proprietà della bevanda:
Una o due tazze di questo decotto, prese a stomaco vuoto, scacciano la febbre, il mal di testa e il mal di stomaco, dolori diffusi e dolori articolari… Esso è tenuto in così tanta considerazione che chiunque intraprende un viaggio ne porta un po’ con sé e quei popoli volentieri scambierebbero un sacco di rabarbaro per un’oncia di Chai Catai.
Il tè fu inizialmente portato in Europa proprio dalla Repubblica di Venezia attraverso vie commerciali antichissime che essa controllava e che coincidevano con quelle della seta e delle altre spezie orientali. Il tè veniva trasferito dai luoghi di origine su piccole imbarcazioni che circumnavigavano il sub continente indiano prima di essere caricate sui cammelli che attraversavano le regioni montagnose degli odierni Pakistan ed Afganistan e quindi il deserto arabico per giungere sui mercati mediorientali. Da qui erano infine trasportate, a cura delle navi della Serenissima, nei porti italiani e nord europei. Attorno al XV secolo, tuttavia, la pirateria rese costosissima la prima parte del viaggio. La contemporanea diffusione di navi più veloci e di nuovi sistemi di navigazione portarono a preferire il viaggio diretto attraverso l’Oceano Indiano, escludendo così le rotte mediterranee e chi le controllava, dal traffico del tè. Venezia e le altre potenze marinare italiane persero così importanza a favore delle nuove potenze nazionali nordeuropee e contemporaneamente il tè, inizialmente diffusosi proprio ad opera dei veneziani, divenne una merce apprezzata soprattutto nel nord Europa, laddove in Europa meridionale si diffuse un altro infuso, stavolta di origine africana, il caffè. Curiosamente, ma non troppo, anche il caffè conteneva l’alcaloide neurostimolante del tè: la caffeina.
Dopo Venezia furono gli olandesi e i portoghesi a importare tè dalla Cina. Gli inglesi arrivarono più tardi ma riuscirono meglio di altri a sfruttarne le potenzialità commerciali: la famosa Compagnia Orientale delle Indie ne fece uno dei prodotti su cui basava la propria potenza.
Ma, come dicevamo, prima degli inglesi furono olandesi e portoghesi a portarlo in Europa. Quando nel 1602 l’alleanza politico militare fra questi due Paesi si ruppe, l’Olanda iniziò a importarlo in Europa autonomamente, direttamente dalla Cina. In questo modo nelle farmacie dell’Aia, il tè era venduto alla stregua di altre costosissime spezie orientali, a prezzi elevatissimi. Ma la bevanda incontrò un successo imprevisto e così presto il prezzo scese e il tè, da curiosità per ricchi, divenne una bevanda di grande diffusione, preparandosi ad invadere tutta l’Europa del nord.