Bitto

Adriana Angelieri

di Martino Ragusa.

Il bitto è uno dei più aristocratici formaggi italiani “inventato” intorno all’anno mille da clan celtici che si rifugiarono sulle Alpi Orobiche dopo che i romani li cacciarono dalla Pianura Padana. Esperti mandriani, i celti cercarono la valle più adatta all’allevamento del bestiame e la individuarono in quella del fiume Bitto. Ma per darvi una misura della considerazione in cui è tenuto questo prodotto in Valtellina vi dirò che sono molti ad affermare che non sia stato il fiume a dare il nome al formaggio ma il formaggio al fiume. Bitto, infatti, deriverebbe dal celtico “bitu” che vuol dire “perenne” con una evidente allusione alla longevità di questo formaggio conservabile per oltre dieci anni.

I meno entusiasti invece, sostengono la derivazione di “Bitto” dal tedesco “bett”, che vuol dire “letto”, anche di fiume. Comunque, il formaggio ha dato nome alle due valli nelle quali viene prodotto, la Valle del Bitto di Albaredo e la Valle del Bitto di Gerola. È un formaggio grasso, di consistenza semidura o dura, prodotto con latte vaccino intero crudo, con eventuale aggiunta di latte di capra fino alla quantità del 10%. La stagionatura minima è di 70 giorni e può protrarsi per dieci anni facendo variare il sapore dal delicato al piccante. Le forme sono cilindriche, con un diametro tra i 30 e i 50 centimetri e pesano dai 15 ai 30 chili. Sono immediatamente riconoscibili perché lo scalzo (cioè l’altezza del cilindro) è concavo facendo assomigliare la forma a una puleggia.

Raccontata così la formula del bitto sembra facile e imitabile da qualsiasi bravo casaro. Ma state a sentire quali sono le tre principali regole per la produzione di questo formaggio. Ce ne sono altre, ma sono queste tre a dare al bitto il primato del formaggio con la preparazione più laboriosa e faticosa di tutto il vastissimo panorama caseario italiano:

  1. Il latte deve provenire da vacche di razza bruna alpina al pascolo negli alpeggi. Le capre devono essere di razza orobica o “della Val Gerola”.
  2. Il formaggio può essere prodotto solo nei mesi estivi in alpeggio. Il latte deve essere trasformato entro trenta minuti dalla mungitura, prima che si raffreddi.
  3. Le vacche non devono mai stancarsi con lunghe camminate.

Solo così possono dare un latte sufficientemente grasso.

Martino con un pastore e una toma di bittoOra vi pongo un problemino come a scuola. Le mucche devono cambiare spesso la zona di pascolo per trovare sempre erba fresca e tenera, questo vuol dire che sono costrette ad allontanarsi anche di parecchi chilometri dalla casera, la costruzione in pietra annessa alla baita e dove su trova la “culdera”, un enorme calderone di rame dentro al quale si fa il formaggio. Per la preparazione di qualsiasi altro formaggio, le vacche vengono munte al mattino, prima che partano per il pascolo e la sera quando rientrano. Ma queste non possono stancarsi e quindi vanno munte dove si trovano. D’altra parte, anche se vengono munte sul luogo del pascolo, il latte non può essere trasportato entro mezz’ora fino alla casera perché i pascoli sono molto vasti. Come si può fare il formaggio prima che il latte si raffreddi se questo è munto da vacche distanti ore di cammino dalla casera? Non c’è via di scampo. Se le vacche non possono andare alla casera, sarà la casera ad andare dalle vacche. Ma non si possono costruire tante casere quanti sono i pascoli, anche perché di anno in anno varia la possibilità di sfruttamento di un pezzo di terreno e non è detto che la stessa zona sia idonea da un anno all’altro.

Ci siete arrivati? La soluzione non può essere che l’uso di casere mobili, ed è proprio ciò che fanno i contadini valtellinesi. Non dovete immaginare nessuna specie di furgone attrezzato che sarebbe improponibile tra questi monti ripidi, ma capanne prive di tetto fatte con massi non murati e coperte da un tendone solo quando vengono usate. Sono i “Calécc” e se farete una passeggiata su un sentiero della Val Gerola di sicuro ne avvisterete qualcuno scambiandolo per il rudere di una baita. Ma quei quattro muri a secco, alti poco più di un metro e con sempre intorno qualche palo di legno che sembra abbandonato, sono capaci di immediate resurrezioni con l’arrivo dell’uomo. I pali si trasformano da rifiuti in sostegni per il telone e per la “culdera”, viene fatta ardere la legna sull’angolo destinato al focolare e il miracolo è compiuto: la capanna semidistrutta è diventata un laboratorio per la produzione itinerante del bitto e in rifugio per i contadini per qualche notte. Il calécc vive fino a quando si esaurisce il pascolo, poi viene abbandonato per un altro.

L’intera popolazione di calécc è costruita in giugno nelle zone con i pascoli migliori e smontata a settembre per ricominciare l’anno successivo.
Il formaggio prodotto viene portato fino alla baita a cavallo oppure a spalla dentro a gerle di legno che hanno dimensioni e struttura studiate per il trasporto del bitto. Nella baita inizia la stagionatura, poi viene trasferito nelle cantine del fondovalle, ancora una volta a cavallo o a spalla.

Costruzione dei calécc, cura del bestiame, mungitura a mano, preparazione del formaggio con rottura manuale del caglio, trasporto a spalla di forme, acqua e legna, rottura manuale dello sterco per favorire la concimazione dei prati. Sono queste le fatiche quotidiane degli alpeggiatori chiamati, non a caso, “caricatori d’alpe”. E il lavoro pesante non è l’unico disagio per questi uomini disposti a vivere isolati per tutta l’estate in baite prive di corrente elettrica, acqua corrente e cavi del telefono. Solo alcune sono raggiunte da piste percorribili con una jeep, come quella di Pescegallo dove sono stato. In compenso mancava il segnale per il cellulare. L’unico contatto con il resto del mondo era una radio a pile, preziosa per le previsioni del tempo e, da quello che ho sentito, per ascoltare un po’ di musica rock.
Ho trascorso un’intera giornata con il casaro Paolo Fallati e i caricatori Christian e Massimiliano. Dopo che ho visto in che condizioni vivono e come lavorano, non sapevo se considerarli alieni o eroi. Sembravano venire dal passato, ma la musica che ascoltavano sottolineava l’eroismo. In fondo sono dei ragazzi, Paolo ha 23 anni, Massimiliano un paio di più, Christian ne ha 18. Ma lavorano a quel modo per quattro mesi senza prendersi mai un giorno di svago. Perché le vacche vanno munte sempre, anche nei festivi, e le persone disposte a fare il casaro e il caricatore d’alpe sono sempre di meno, troppo poche per potere pianificare turni di lavoro con giorni di riposo.

“Ma non ti viene mai voglia di andare in discoteca?” Ho chiesto di getto a Paolo. Lui mi ha dato una risposta ovvia che mi ha fatto sentire un po’ scemo. “Ma io ci vado!” mi ha detto con un bel sorriso “Non sto sempre qui. In inverno lavoro giù in paese. Lì alla domenica faccio festa e il sabato vado a ballare”.

Del sapore straordinario del bitto è inutile che ve ne parli, dovete solo assaggiarlo e a tutte le sue età, dai settanta giorni ai dieci anni di invecchiamento. Ma posso darvi qualche consiglio: evitate di accostarlo a mostarde, miele o marmellate. Accompagnatelo con la tradizionale ciambella di segale, il “prassadel”, e beveteci sopra un vino della Valtellina, partendo dal Grumello e arrivando allo Sforzàt, secondo gli anni di stagionatura del formaggio e quanto volete spendere.

Durante l’escursione in Val Gerola ho alloggiato nell’agriturismo “Le Case dei Baff”, frutto del paziente recupero di un vecchio mulino abbandonato da un secolo.

Questi sono indirizzi utili per acquistare il bitto. Con quello che costa, conviene andare a colpo sicuro…

Nel punto vendita della Latteria Sociale di Delebio potete acquistare Bitto, Valtellina Casera DOP, Scimudin, e caprini. L’indirizzo è:
Via Stelvio 139
23014 Delebio (So)
Tel. 0342/ 68 53 68
Web: http://www.latteriavaltellina.it

Siciliana trasferita a Bologna per i tortellini e per il lavoro. Per Il Giornale del Cibo revisiona e crea contenuti. Il suo piatto preferito può essere un qualunque risotto, purché sia fatto bene! In cucina non devono mancare: basilico e olio buono.

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