Cibo E Cinema

Redazione

 

Gli anni 70: La crisi della famiglia e dei valori sociali

Sono gli anni della crisi economica, sociale, dei valori e della famiglia. Sono anni bui, senza petrolio, con le “domeniche a piedi”, anni di contestazione giovanile studentesca, di rivolte, di odio, di violenza, di sequestri politici, di brigate rosse, di rivolte femministe. Sono anni soprattutto di referendum importanti che modificano profondamente la mentalità e la famiglia italiana; passano le proposte di legge sull’aborto e sul divorzio, che se da un lato sfaldano la già fragile cellula della famiglia, dall’altra colpiscono nel vivo l’essenza centrale del credo cristiano-cattolico che tanto conta ancora in Italia.

I registi che meglio sanno leggere questo periodo sono Pierpaolo Pasolini e Marco Ferreri. Pasolini merita una trattazione separata, visto che la sua esperienza cinematografica non può essere analizzata separatamente dalla sua attività di romanziere. Marco Ferreri è dal canto suo il regista del cibo, che nei suoi film non manca mai, ed anzi è praticamente sempre al centro dei suoi film. L’accoppiata cibo = morte e l’ossessione per il cibo, nelle sue infinite sfaccettature, è onnipresente. Possiamo dire che la filmografia di Ferreri è come una lunga dissertazione filosofica sull’atto di mangiare come metafora dell’uomo contemporaneo. Nei film di Ferreri il cibo non è più né cibo, né nutrimento, né sintomo di benessere o ricchezza. È assunto invece come il simbolo del disagio, dell’aggressività, sia dell’uomo in quanto tale, sia del decennio in cui vivono i suoi personaggi.

Il cibo è un’ossessione, ma non come nei film di Visconti, dove era metafora di vita, bensì come portatore di morte. Se in film come “L’uomo dei cinque palloni” (65), “Dilinger” (68) o “La Cagna” (72) Ferreri fa le prove generali della sua poetica nichilista e pessimista, il manifesto assoluto arriva nel 1973 con il capolavoro “La Grande Abbuffata” in cui Ferreri mette in scena una lotta tra il cibo e l’uomo, in cui l’uomo soccomberà tristemente. La vicenda è quella di 4 amici decisi a mangiare a oltranza fino a morire, progetto portato a termine nella villa in cui abitò nel 1600 lo scrittore francese Nocolas Boileau, autore della satira “il banchetto ridicolo” a cui simbolicamente s’ispira il film di Ferreri. Nel film il regista spoglia i personaggi dall’atto di pensare, condannandoli alla ciclicità gastrica del mangiare, vomitare, defecare e ricominciare a mangiare, in cui non c’è più posto per il pensiero.

Abbuffarsi di cibo è dunque, come nella clinica della bulimia, un modo perfetto per stordire i sensi, per addormenta il pensiero e astenersi dal giudizio, proponendo un’analogia tra cibo e droga che i moderni sintomi del comportamento alimentare confermano senza eccezioni. L’abbuffata, l’eccesso di cibo, è dunque il ricorso ad un oggetto transizionale in grado di coprire temporaneamente il vuoto esistenziale che anima il soggetto, ma nello stesso tempo allarga i confini di quello stesso vuoto. L’uomo di Ferreri è mostrato come incapace di reagire al suo tempo, impotente dinnanzi alla società di cui non si sente più parte, finendo per preferire l’auto abbandono, l’annientarsi nella morte. Ma non una morte qualsiasi, adesso anche la morte è deformata dalla logica capitalistico-consumistica, e deve avvenire secondo i suoi riti d’eccesso e di pienezza. Solo la donna, che nel film è rappresentata dal personaggio di Andrea, sopravvive a questo eccesso smodato, diventando così l’ultimo simbolo di vita e di speranza lasciatoci da Ferreri in eredità. Lei che non ha paura del suo desiderio, che chiede “ancora” cibo quando tutti gli altri sono sazi o morti.
Alcune scene sono epiche, tra cui quella in cui Michel Piccoli scimmiotta il monologo di Amleto con in mano la testa di maiale al posto del teschio di Yorik, come a voler dire che il dilemma contemporaneo passa attraverso la domanda “mangiare tutto, come in bulimia, o non mangiare nulla come nell’ideale anoressico?”. O Ugo Tognazzi che volendo finire di mangiare tutto l’enorme pasticcio di paté che ha cucinato, si comprime l’addome, ormai stracolmo di cibo, facendolo scorrere sul sul tavolo della cucina, come a voler fare ancora un pò di spazio nel corpo, come a voler allargare un pò di più il suo vuoto interiore per poterlo riempire ulteriormente, godendo di quel senso di riempimento illusorio che la bulimia moderna ci conferma. Il finale è affidato poi a Philippe Noiret che, diabetico, muore mangiando una torta a forma di seni femminili, simboleggiando nuovamente il poter cullante del cibo.
La passione maligna di Ferreri per il cibo non si conclude con questo film, ma continuerà ad esprimersi anche in seguito, come nel film “”La Carne” (91) dedicato al cannibalismo come estrema, folle, modalità d’amare.

Anche Bernardo Bertolucci usa spesso l’alimentazione come metafora sociale, come nel film “Ultimo tango a Parigi” (73) in cui Marlon Brando mangia seduto per terra, nella casa semivuota, senza né tavola, né tovaglia, né posata, come estremo simbolo dell’abbandono del convivio sociale e familiare, e del tentativo di rifugiarsi nei bisogni primari, istintuali; o in “The Dremers” (Bertolucci, 2004), in cui tre ragazzi, durante le rivoluzioni studentesche del ’68 francese, finiscono per procurarsi il cibo direttamente dal bidone della spazzatura, simbolo della fine naturale del ciclo consumistico tanto contestato all’epoca, ma anche inattesa fonte nutritiva.

 

 

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