raccontare il cibo

Il Pane Buono [Racconto]

Adriana Angelieri

Dalla metamorfosi di Kafka a Moby Dick, la letteratura ha sempre raccontato e trasmesso i valori sociali e culturali del cibo attraverso le sue opere. Per valorizzare e testimoniare questo legame, abbiamo voluto rilegare, in senso metaforico, una serie di racconti legati al cibo, frutto della mano e dell’animo creativo di talentuosi scrittori.

I raccontini saranno pubblicati su Il Giornale del Cibo ogni mercoledì, non perdeteli!

Il Pane Buono

Di Elena Mearini

Sono nata con le mani piccole.

Nella culla i miei pugni erano due olive smilze, mamma le ricorda così. Nulla di preoccupante, solo questione di tempo e poi avrebbero raggiunto una misura normale.

Secondo i medici si trattava di un ritardo dello sviluppo, erano mani pigre, le mie.

Credo volessero capire meglio la natura del mondo, prima di sceglierlo come residenza definitiva. Del resto, mi sembra una pretesa logica. Un mondo buono lo si occupa volentieri,  viene voglia di toccarlo e farsi così grandi da tenerlo tutto sul palmo. Dal mondo cattivo, invece, bisogna nascondersi, e restare piccoli facilita la scomparsa, puoi infilarti nella tana di un topolino e vivere di leggi e proporzioni sconosciute all’uomo.

Sono nata con le mani piccole e pensanti, poteva succedere a chiunque. Ma è capitato a me. Qualche anno appena, e loro lo hanno subito capito, che in questo mondo di buono c’è poco. Si salva uno spazio minimo, giusto la metratura adatta alla camera di un bambino. Per questa ragione, le mie mani si sono fermate agli otto anni di vita mentre io ne ho compiuti venti proprio ieri.

Devo prendermene cura, fare attenzione a ciò che toccano, sono molte le cose pericolose. Spetta a me difenderle dalle superfici ambigue, dagli spigoli insidiosi, dagli oggetti poco sinceri e poi c’è la pelle della gente, quella proprio non la devono sfiorare. E’ impossibile conoscere le intenzioni nascoste sotto, meglio evitare spiacevoli sorprese.

Io curo, proteggo e lavo le mie mani. Acqua tiepida, bicarbonato e limone, tre volte la mattina, tre il pomeriggio e tre la sera. Così i batteri non le possono attaccare, le mie mani non sono fatte per la guerra. Quando sento parlare di soldati bambini, io spengo la Tv e giuro che mai permetterò alle armi e alla divisa di prendersi le mie mani.

Stamane però non ho spento la Tv. E’ stato per via di quella pagnotta di pane trasformata in duro pezzo di carbone, lì, in primo piano al centro dello schermo.

Si trattava di un documentario sui reperti di Pompei. Il pane era una specie di sopravvissuto all’eruzione del Vesuvio. Giunto a noi stremato, nero, stanco di millenni ma ancora fedele alla propria forma originale. Un pane eroe.  

La seconda inquadratura ne ingrandiva una parte su cui si potevano vedere con chiarezza le impronte dei pollici. Chi impastò quel pane volle lasciare così la propria firma, con due dita scritte al posto del nome. Le sue mani lo resero grande, più della lava, della cenere, del tempo che passa e brucia sputando fuoco come il più malvagio dei draghi.

Noi oggi sappiamo che a Pompei visse l’uomo del pane. A pensarci, mi pare di vederlo qui, chino sul tavolo della cucina, con le dita infarinate e un bianco spesso dentro le unghie.

Dice che bisogna sporcarsi le mani, lavorare l’impasto con i palmi e i polsi, lasciare che ogni singolo dito conosca la fatica e impari il sudore. Dice che si fa così, a ottenere un pane immortale, buono per tutti i secoli a venire. Vuole che mi ci metta anch’io, perché un pane buono migliora il mondo.

Apro la credenza, prendo un chilo di farina e la rovescio sul tavolo. Accanto, la ciotola dell’acqua, poi lievito, olio e sale.

Oggi, dalle mie mani piccole nascerà qualcosa di grande.

Si stancheranno, certo. Impareranno lo sporco, la fatica e il sudore, ma non importa. Un pane buono non può fare male.

 

 

elena meariniElena Mearini (1978), allieva di Raul Montanari, organizza mostre d’arte per la Galleria Battaglia-Finarte-Sothebys e cura le pubbliche relazioni per un’azienda chimica del Milanese. 
Ha svolto un’intensa attività teatrale che l’ha portata sul palcoscenico del Teatro Franco Parenti di Milano (1998), del CRT (2000), del Litta (2001) e del Carcano (2003). Nel 2000 l’esordio cinematografico in ‘Chiedimi se sono felice’ con Aldo Giovanni e Giacomo, seguito da ‘Fame Chimica’ (2003) di A. Bocola e P. Vari, con Valeria Solarino. Il suo primo romanzo 360 GRADI DI RABBIA è uscito con Excelsior1881, il secondo A TESTA IN GIU’ con Morellini Editore, l’ultimo, dal titolo BIANCA DA MORIRE, con Cairo Editore.

Siciliana trasferita a Bologna per i tortellini e per il lavoro. Per Il Giornale del Cibo revisiona e crea contenuti. Il suo piatto preferito può essere un qualunque risotto, purché sia fatto bene! In cucina non devono mancare: basilico e olio buono.

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