Espresso Italiano

C’era una volta l’Espresso Italiano: intervista a Manuel Terzi

Silvia Trigilio

Ah la moka, il gorgoglìo del caffè che sale e l’aroma che invade ogni angolo della cucina! Il caffè, il gesto intimo e irrinunciabile di portare la tazzina alla bocca!  Quel vizio così italiano, quel piacere negato che tramuta le sorti della nostra giornata durante i soggiorni all’estero.

Tutto vero, verissimo, ma parliamoci chiaro: di quello che sta dentro la tazzina, cosa sappiamo? Quanti di noi sono in grado di dire se quello che stiamo sorseggiando è un ‘buon caffè’? Chi sa distinguere con cognizione di causa un caffè di alta qualità da un banale, anonimo prodotto industriale?

Delle differenze tra caffè artigianale e caffè industriale, dell’evoluzione dell’Espresso Italiano abbiamo parlato con Manuel Terzi, esperto di caffè e titolare di una caffetteria specializzata con sede a Bologna, Vignola (Modena) e… Donostia San Sebastiàn (Spagna nord-orientale), autore di quello che lui stesso ha definito caffè ‘bastardo’, ‘sperimentale’, se vogliamo. Le sue miscele pregiate e i caffè mono-origine hanno un aroma inconfondibile, ma rompono la tradizione dell’espresso nostrano.

 

Manuel Terzi

 

Manuel, quando ieri sera ho detto ad un mio amico napoletano che oggi sarei venuta ad intervistarla mi ha detto: “E mo’ quello me lo chiami caffè?” Lei stesso, in passato, ha definito il suo caffè ‘bastardo’. Cosa possiamo dire agli integralisti napoletani che difendono a spada tratta il prodotto della tradizione?

Manuel Terzi: “E’ vero quello che dicono. Ho grande rispetto e grandi stima per Napoli perché ha contribuito a creare in me l’innamoramento per il caffè, i napoletani conservano per il caffè la sacralità che merita. Certo è che ci sono in tutta Italia abitudini molto differenti: a Napoli c’è una ricerca dell’espresso che va verso la densità e la corposità, un prodotto venduto ma povero dal punto di vista aromatico.

E se quando è nato il caffè napoletano si cercavano densità e sciropposità è perché era l’unica cosa che, fino a poco tempo fa, il caffè poteva dare in Italia.

Ora le cose stanno cambiando e vengono fuori caffè più aromatici, inevitabilmente più acidi. Si stanno affacciando i monocultivar (quelli che, se fossimo in campo enologico, chiameremmo monovitigni, per intenderci), che conferiscono frescezza e aromaticità ma stravolgono un po’ l’Espresso Italiano tradizionale. I napoletani hanno ragione: qui non trovano l’espresso napoletano. E’ frutto di una nostra scelta e di una nostra ricerca”.


Chi entra nella sua caffetteria, prima di bere non odora: ‘sniffa’ la tazzina. Cos’è che determina l’aromaticità di un caffè?

M.T.: “Ci sono dei metodi di lavorazione dopo la raccolta del caffè. A seconda di quale viene scelto, viene sviluppata un’acidità e un’aromaticità più volatile, più fresca, più floreale, più fruttata. A noi piace molto questa aromaticità, quindi scegliamo di solito i caffè lavorati a umido o con fermentazione, raramente il dry process.

 

Caffetteria Terzi Bologna


Nel percorso dalla piantagione alla tazzina, cosa rende il vostro caffè un prodotto di qualità?

M.T.: “Diverse cose. Anzitutto cerchiamo di non comprare mai ‘a strozzo’, ma di valorizzare e premiare il lavoro buono, per esempio non compriamo mai senza assaggiare i campioni. Ad esempio: se un bravo produttore quest’anno, a differenza degli anni precedenti, decidesse di seguire una politica della quantità a scapito della qualità ci perderebbe come clienti. E poi cerchiamo di selezionare prodotti importati e di valorizzare i prodotti del territorio….”

 

Veniamo alla domanda clou: cosa fa la differenza tra un caffè industriale e uno artigianale?

M.T.: “Beh, anzitutto bisogna aprire una piccola parentesi sui disciplinari in materia caffeicola in Italia: il settore è davvero poco regolamentato. Io posso fare una miscela con un 1% di arabica e definirla miscela arabica. Non sono obbligato, per legge, ad indicare quali grani, quali provenienze metto in miscela e di che anno sono. Quindi potrei utilizzare raccolti vecchi di 5 anni, magari con dei difetti, e venderli al pubblico senza dover rendere conto a nessuno. L’unico obbligo di legge è la scadenza: 2 anni dalla data di tostatura.

La conseguenza è che un caffè industriale che abbia come primo obiettivo il lucro e non la qualità di un prodotto ha ampi spazi di movimento. Chi produce un caffè artigianale, al contrario, ha obbligo morale di scegliere caffè di grande qualità, per valorizzare i pregi di un prodotto agricolo fresco.

Passando alle differenze, la materia prima, anzitutto, è completamente diversa. Se ho un prodotto artigianale fresco, privo di difetti, aromatico, e voglio valorizzarlo, devo fare una torrefazione attenta, rispettosa e delicata, che arrivi a un punto di tostatura più chiaro per non schiacciare, uccidere e tagliare tutti i ‘varietali’.

Se invece sono un torrefattore industriale che ha come unico scopo il profitto dovrò fare una tostatura molto più scura per togliere e nascondere tutti i ‘varietali’ in modo che, se si tratta di prodotto vecchi e pieni di difetti, non si capisca. Si arriva quindi a un prodotto in tazza omologato sì, ma amaro, tannico, intenso e povero. Tanti hanno come criterio di scelta quello di un prodotto omologato. È in fondo quello che fa Mc Donalds’, che non dice “Il mio hamburger è il più buono del mondo, dice: “In tutto il mondo il mio hamberger è uguale”. Ecco, molte caffetterie fanno così: affermano di essere caffetterie di grande tradizione in tutto il mondo, e in tutto il mondo il loro prodotto è uguale”.

 

Quindi il grado di tostatura dei chicchi viene scelto in base alla ceratteristiche del prodotto che vogliamo valorizzare?

M.T.: “Assolutamente sì. Se ho un caffè ricco di ‘varietali’ dovrò fare una tostatura più chiara per valorizzarli. Se destino una miscela a preparazioni in espresso tradizionale dovrò fare una tostatura leggermente più spinta per ottenere la cremosità alla quale siamo abituati. Se devo fare un drip coffee all’americana dovrò fare una tostatura più chiara. Tante sono le variabili che incidono sulla scelta della tostatura….”

Caffè Terzi


Come si diventa esperti di caffè?

M.T.: “Come ci si innamora di una donna: non è possibile comandarlo. Io ho inziato a studiare caffè casualmente: volevo proporre un prodottto di qualità ai miei clienti  e non lo trovavo. Allora ho iniziato autonomamente ad approfondirne lo studio ed è scattato l’innamoramento, la passione. Napoli ha giocato in questo una buona parte, Ernesto Illy, con cui ho studiato anni fa, un’altra. E adesso sono caffè-dipendente”.

 

E’ stato ad Expo a visitare il cluster del caffè?

M.T.: “Non ancora perché sto collaborando con un’azienda che è ad Expo, per la quale ovviamente ho preparato un caffè. Non appena lo metteranno in mescita andrò a vedere l’Expo”.

 

I caffè che vendete sono prodotti da voi?

M.T.: “Abbiamo una parte di lavorazione presso lo stabilimento di nostra proprietà. Le miscele più pregiate, invece, le origini, le tosto io personalmente in un laboratorio qui in Emilia”.

 

Caffè Terzi


E quello che sto assaggiando adesso cos’è?

M.T.: “Adesso sta assaggiando un’arabica lavata in purezza non tra le più estreme ma senz’altro abbastanza lontana dall’espresso napoletano. Troverà profumi di mandorla, un’acidità dolce, moderata. Profumo di marzapane, di tabacco biondo, di pan tostato e un’aromaticità che porta un’acidità dolce ma presente e conferisce meno sciropposità di quella a cui siamo abituati”.

 

Se metto lo zucchero si offende?

M.T.: “Assolutamente no. Il caffè deve subire la torrefazione per essere lavorato: la torrefazione porta caramellizazione degli zuccheri e quindi alla formazione di un lieve sapore amaro inevitabile. Con un po’ di zucchero, secondo me, il piccolo quantitativo sufficiente per bilanciare la sensazione amara, riesco a fare un’analisi sensoriale più approfondita, più ampia, più complessa”.

 

Ma come…non si dice che i veri intenditori del caffè lo prendono amaro e che lo zucchero copre il vero sapore del caffè…?

M.T. “Ci sono queste due fazioni, ma la verità assoluta non è stata provata. Per cui possiamo metterci tranquillamente un po’ di zucchero a cuor leggero senza sentirci troppo in colpa…”

E voi, quanto siete tradizionalisti? Preferite l’Espresso Italiano tradizionale o cedete alle lusinghe di un buon caffè ‘bastardo’?

 

 

Nata ad Augusta, in provincia di Siracusa, vive a Bologna, dove lavora per l'agenzia di comunicazione Noetica. È direttore responsabile de Il Giornale del Cibo, per cui si occupa di Food Innovation. Il suo piatto preferito è l'insalata di polpo, a patto che sia fresco e cotto bene, perché "è un piatto semplice che riesce a portarmi a casa senza prendere l'aereo". Per lei in cucina non possono mancare il limone, l'origano, l'olio buono e una bottiglia di vino bianco.

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