aragoste bollite vive

Aragoste bollite vive: stop in Svizzera, e in Italia?

Matteo Garuti

Grazie a un recente provvedimento che proibisce questa pratica in Svizzera, si è acceso il dibattito sulle aragoste bollite vive. Secondo la tradizione gastronomica, questo procedimento sarebbe il migliore per preservare il gusto, anche se alcuni studi portano a giudicarlo inutilmente crudele. Dopo esserci occupati di allevamenti intensivi, accusati di negare il benessere degli animali, stavolta cercheremo di saperne di più sul trattamento che in genere subiscono le aragoste, considerando le loro caratteristiche e le ricerche finora pubblicate.

Aragoste bollite vive: la Svizzera dice basta

aragoste astici vivi

Il consiglio federale elvetico ha stabilito che, a partire dal primo marzo 2018, sarà proibito cuocere vive le aragoste e gli altri crostacei – granchi, gamberi e astici – che dovranno essere soppressi elettricamente o sottoposti alla “distruzione meccanica del cervello”. Utilizzando una sorta di elettroshock, gli esemplari perdono conoscenza quasi immediatamente e muoiono nel giro di alcuni secondi, in base alla specie. A frenare la diffusione di questo strumento, però, è il prezzo, prossimo ai 3.000 Euro, motivo per cui la legge svizzera non nega la possibilità di procedere con un colpo netto alla testa.

Al contempo, si vieta l’uso di casse piene di ghiaccio per i crostacei, che invece dovranno essere trasportati solo in vasche di acqua marina, in condizioni quanto più simili al loro ambiente naturale, evitando un’altra pratica ritenuta stressante. La nuova norma, infatti, stabilisce le attività di trasporto e trattamento da attuare, dal momento della pesca fino a quello della cottura, rientrando in un insieme di estensioni della legislazione in materia di protezione animale, che fra l’altro ridefinisce anche il mantenimento dei cani, ad esempio vietando l’utilizzo di sistemi elettrici per punirli. Con questi provvedimenti, la Svizzera prende una posizione netta e d’avanguardia contro il maltrattamento degli animali, che inevitabilmente ha stimolato il dibattito su questi temi.

In Italia, invece…

Nel nostro Paese, dallo scorso anno, la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alla detenzione di crostacei vivi, tenuti con le chele legate su banchi ricoperti di ghiaccio. A seguito di una denuncia relativa a un caso verificatosi in Toscana, la Cassazione ha seguito l’orientamento già espresso dal tribunale di Firenze, stabilendo che la detenzione con queste modalità contrasta con quanto previsto dal Codice penale, equiparando la conservazione “in uno stato di detenzione e sofferenza” agli altri maltrattamenti sugli animali, già penalmente punibili.

Nel nostro Paese, tuttavia, manca una legislazione nel senso di una morte più compassionevole per i crostacei, e la bollitura degli animali vivi è tuttora permessa e largamente praticata.

Perché vengono cotte vive?

cottura astice aragosta

Prima di considerare le ricerche scientifiche su questi animali, vanno ricordati i motivi in base ai quali le aragoste vengono bollite vive. Sostanzialmente, si ritiene che questa pratica consenta di mantenere le carni più saporite, evitando la dispersione dei succhi presenti nella parte superiore del carapace, che invece sarebbe favorita sopprimendo l’animale con un colpo di grazia alla testa. Va detto che questa abitudine, però, è perpetrata soprattutto per il suo essere tradizionale e radicata in cucina, più che per un aspetto strettamente tecnico. Si dice che le aragoste bollite vive emettano una sorta di grido prima di morire, un sibilo che in realtà dipende dalla fuoriuscita di vapore dal carapace.

Riguardo al consumo alimentare di questi crostacei, invece, bisogna ricordare che la presenza di tropomiosina – una proteina non tollerata da tutti – può causare sgradite reazioni allergiche.

Ora cercheremo di conoscere meglio questi animali e le loro peculiarità, prima di valutare le risposte al dolore del loro sistema nervoso.

Aragoste: specie e caratteristiche

L’aspetto più evidente che distingue questi animali (famiglia dei Palinuri) dagli altri crostacei è l’assenza delle grandi chele frontali, come abbiamo visto in un nostro articolo sulla differenza tra astice e aragosta. Nonostante ciò, le specie vengono talvolta confuse, probabilmente a causa delle notevoli dimensioni che le accomunano.

Le aragoste vivono in cunicoli su fondali rocciosi, a profondità diverse in base alla specie, di solito in forma gregaria e stanziale, in colonie costituite da numerosi esemplari, nutrendosi di plancton, alghe, piccoli pesci, invertebrati e altri crostacei. La riproduzione avviene sul finire dell’estate, mentre in inverno le larve iniziano la loro vita, che può durare diversi decenni, con una crescita lenta ma continua.

Ecco quali sono le varietà di aragoste che possiamo trovare in vendita.

Mediterranea

aragosta mediterranea

Nei nostri mari vivono diverse specie, a partire da quella mediterranea (Palinurus elephas), particolarmente pregiata, che può raggiungere una lunghezza di 50 centimetri per otto chilogrammi di peso, anche se mediamente si riscontrano pezzature inferiori. Il corpo è robusto, formato da sei segmenti mobili che culminano in una coda a ventaglio utile per il nuoto, mossa da un grande muscolo centrale, la parte più ricercata in ambito gastronomico. Sul tema dei prodotti ittici più richiesti dal mercato, possiamo consigliare il nostro approfondimento sul tonno rosso, specie a rischio d’estinzione.

Alla grossa testa, che protegge il cervello e buona parte degli organi interni, sono collegati gli occhi, le zampe, due lunghe antenne ripiegate all’indietro, con funzioni sensoriali, e due spine dentellate a scopo difensivo. L’esterno del corpo è rivestito da un carapace spinoso e abbastanza spesso, di colore rossastro striato e diviso in due parti, che nel corso della vita viene sostituito diverse volte.

Oltre a questa specie, che popola anche l’Oceano Atlantico orientale, ecco quali altre aragoste possiamo trovare nel bacino del Mediterraneo.

Bianca

Questa specie (Palinurus mauritanicus, detta anche atlantica o reale) ha un colore rosato e vive più in profondità rispetto all’aragosta mediterranea, fra i 200 e i 600 metri, dove raggiunge misure superiori, fino a 75 centimetri di lunghezza. Le spine sono più piccole e distanziate, non separate da uno spazio a forma di “V”. Si tratta di una varietà più rara e ugualmente pregiata.

Verde

L’aragosta verde (Palinurus regius) si distingue per il colore verde-bluastro opaco, bordato di giallo. Viene pescata soprattutto lungo le coste africane, in quantità superiori rispetto all’aragosta mediterranea e a quella bianca. La coda è più piccola rispetto a quella delle altre due specie, aspetto che ne determina anche il pregio inferiore.

Palinurus ornatus

Si tratta di una specie tipica dell’Oceano Indiano, rara nel Mediterraneo, dove è penetrata recentemente attraverso il Mar Rosso e il Canale di Suez. Questa aragosta vive a profondità comprese fra i dieci e i cinquanta metri, mentre le zampe e le lunghe antenne maculate sono di colore blu e giallo.

Pesca, mercato e conservazione

pesca aragoste

L’aragosta è da sempre un crostaceo estremamente pregiato, per il tipico gusto dolce e per le dimensioni, destinato ai consumi più elitari e alle occasioni speciali. Oggi continua a rientrare fra le prede marine più ambite, aspetto che di conseguenza determina un prelievo intensivo in contrasto coi principi della pesca sostenibile, seppur mitigato dagli allevamenti, che comunque forniscono al mercato la maggior parte degli esemplari.

Questi crostacei vengono pescati con le nasse o con il tramaglio, tecniche non particolarmente impattanti, anche se il carattere stanziale e gregario di questa specie, che vive in gruppi uniti e raccolti, può favorire l’abbattimento di un’intera colonia in una sola battuta di pesca.

Da molti anni l’aragosta mediterranea è protetta secondo la Convenzione di Berna, oltre a essere soggetta a fermo pesca nel periodo dal 1 gennaio al 30 aprile, quando indicativamente raggiunge la maturità sessuale.

Aragoste bollite vive: cosa dicono le ricerche?

L’ambito di ricerca sulla percezione del dolore dei crostacei non è abbastanza consolidato per produrre risultati unanimemente riconosciuti dal mondo scientifico. Come stiamo per vedere, esistono pareri opposti.

I crostacei non provano dolore?

Per molto tempo si è ritenuto che il sistema nervoso dei crostacei non fosse abbastanza sviluppato per consentire la percezione del dolore, aspetto che di per sé avrebbe costituito una scusa valida per continuare a bollire vive le aragoste. Questa teoria è tuttora sostenuta dal Lobster Institute del Maine, che riporta le ricerche di Robert Bayer e Mike Loughlin, le quali sostanzialmente equiparano il sistema nervoso dei crostacei a quello degli insetti.

Secondo queste teorie, le contrazioni delle aragoste immerse in acqua bollente sarebbe semplicemente la reazione istintiva a uno stimolo improvviso, non dipendente dalla sofferenza percepita. Questi animali, privi di cervello e funzioni nervose complesse, non avrebbero infatti la possibilità di elaborare il dolore come fanno i mammiferi. A conclusioni analoghe era giunto uno studio norvegese del 2005, più volte citato in rete.

Altre ricerche sostengono che…

Altri studi, però, sembrano dimostrare il contrario, affermando la raffinatezza del sistema nervoso dei crostacei, che sarebbe paragonabile a quello dei mammiferi. Come riportato da Peta (People for the Ethical Treatment of Animals), gli zoologi Tom Abrams, Michael Kuba, Gordon Gunter e Jaren G. Horsley sono concordi nel sostenere che la percezione del dolore dei crostacei esiste ed è sviluppata. Il dimenarsi delle aragoste bollite vive ne sarebbe una prova, un comportamento che evidenzierebbe spasimi dovuti al dolore e non semplici riflessi automatici.

Questi animali – ritenuti senzienti, ben dotati nell’olfatto e nel gusto, nonché evoluti sul piano dei comportamenti sociali – soffrirebbero anche il mantenimento in spazi troppo ristretti, che provocherebbe stress associato a bassi livelli di ossigeno e al sovraffollamento. I crostacei, provvisti di due centri nervosi principali, uno nella parte anteriore e uno nella parte posteriore, sarebbero quindi in grado di percepire dolore, reagendo di conseguenza.

aragosta piatto

In questo ambito, gli studi di Robert Elwood, professore di comportamento animale alla Queen’s University di Belfast, segnano una svolta e sono tra i più riportati. Per molti anni il ricercatore nordirlandese ha studiato i crostacei, sottoponendoli a diversi stimoli elettrici e chimici per valutarne le reazioni, concludendo che con tutta probabilità questi animali possono provare dolore. Per Elwood, la differenza di struttura del sistema nervoso non basterebbe per escludere la sofferenza percepita: animali diversi, quindi, possono avere sistemi nervosi non comparabili, ma comunque sviluppati per reagire in modo simile a stimoli analoghi.

In ottica evolutiva, la ragione del dolore è la protezione della vita e il perpetuarsi della specie, per fornire a un essere vivente un forte stimolo su una fonte di danno da evitare in futuro. Se la durata della vita non è sufficiente per trarne beneficio – come nel caso della maggior parte degli insetti – allora il dolore tecnicamente non serve.

Nel caso dei crostacei, ad ogni modo, Robert Elwood sostiene il manifestarsi di comportamenti elaborati e prolungati, che coinvolgono il sistema nervoso centrale favorendo un rapido apprendimento atto a influenzare le esperienze future, come avviene per i mammiferi.

Le conclusioni di Elwood, che sono controverse e hanno incontrato reazioni contrastanti, stimolano alcune considerazioni finali.

Come comportarsi?

coda di aragosta

Innanzitutto, bisogna precisare che non ci sono vantaggi tecnicamente dimostrati per preferire la cottura da vivi dei crostacei, ragione già sufficiente per agire diversamente.

Questa modalità, che ci appare particolarmente cruenta, tende a impressionarci maggiormente rispetto alla morte di altri animali uccisi per il consumo alimentare. Siamo portati a interpretare il dolore – reale o presunto – delle aragoste bollite vive in chiave umana, con un’implicita immedesimazione basata sull’esperienza individuale, anche se questa sensazione è per definizione soggettiva, non può essere testata universalmente ed è difficile da definire.

È vero che potremmo confondere l’istinto di fuga con una reazione al dolore, e d’altro canto la mancanza di un cervello centralizzato potrebbe non impedire ai crostacei di soffrire. In sostanza, è praticamente impossibile sapere con certezza quale sia la modalità di soppressione meno tediosa per le aragoste, e peraltro anche l’esatta consapevolezza sul dolore non necessariamente porterebbe a un drastico cambiamento delle abitudini umane in questo senso.

I metodi alternativi per sopprimere questi animali sono “umanamente” preferiti per la loro rapidità, che prima di tutto abbrevia il disagio di chi uccide, non per la certezza di essere più accettabili per i crostacei. Anche l’iniziativa svizzera, perciò, rientra in una visione impostata sui nostri parametri di sofferenza e compassione.

In mancanza di risultati scientifici univoci e di norme precise, quindi, il comportamento nei confronti dei crostacei non può che essere orientato dall’etica e dalla coscienza personale.

Dopo questo approfondimento sulle aragoste bollite vive, può essere interessante leggere il nostri approfondimenti sull’allevamento del salmone e sulla possibile tossicità del gambero killer della Louisiana, che da alcuni anni ha invaso le acque interne europee.

 

Fonti:
ANSA
Science
Popular Science
Legge 20 luglio 2004 n. 189
Convenzione di Berna – Appendice III, legge n. 503 5/8/1981
Articolo 132 D.P.R. 1639/68
Lega anti vivisezione – LAV
People for the Ethical Treatment of Animals – PETA
Lobster Institute – University of Maine
Norwegian scientific Committee for Food and Environment – VKM
Royal Society Publishing
Animal Behaviour
Journal of Experimental Biology
Applied Animal Behaviour Science

Matteo è nato a Bologna e vive a San Giorgio di Piano (Bo), è giornalista, sommelier e assaggiatore di olio d'oliva, ha collaborato con il Dipartimento di Scienze e Tecnologie agro-alimentari dell'Università di Bologna. Per Il Giornale del Cibo si occupa di attualità, salute, cultura e politica alimentare. Apprezza i cibi e le bevande dai gusti autentici, decisi e di carattere. A tavola ama la tradizione ma gli piace anche sperimentare: per lui in cucina non può mancare la creatività, "perché è impossibile farne a meno!"

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